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White Tree, il black friday dei profughi

La terza puntata del diario di Paola Strocchio che per una settimana ci porterà nei campi profughi di Salonicco in Grecia. «Al mio secondo giorno di campo sto imparando che bisogna accettare i compromessi, anche quelli che potresti confondere con un ossimoro»

di Paola Strocchio

Oggi volevo parlare del Black Friday. Poi però ho cambiato idea, e vi parlerò del White Tree, che mi ha proposto oggi il coordinatore della Luna di Vasilika.

Ho preso un pennello e l'ho immerso in un vassoio colmo di calce. Poi ho dipinto uno, due, tre, non mi ricordo quanti alberi.


Gli alberi colorati con la calce

Perché? Perché un albero con il tronco bianco è più bello. Perché un albero con il tronco bianco è protetto dai parassiti. Perché un albero sano è più bello. E un albero bello rende più bello anche un campo profughi.

E vivere in un posto bello è più bello che vivere in un posto brutto. Altrimenti perché appenderemo in casa quadri, stampe e cornici?

Al mio secondo giorno di campo sto imparando che bisogna accettare i compromessi, anche quelli che potresti confondere con un ossimoro. E che il campo profughi in qualche modo è comunque casa.

Ci sono ancora poco più di duecento cuscini da distribuire agli ospiti del campo. Anche oggi si presentano con qualche pezzo di carta in mano che racconta come si chiamano e da dove vengono. Tra di loro c'è chi prova a mostrare i documenti di chi ha già lasciato il campo per prendere un cuscino in più. È il gioco della disperazione, ma le regole qui ci sono e devono essere rispettate. L’equilibrio di un campo profughi è quanto di più precario abbia mai visto, e basta nulla perché la situazione sfugga di mano.

Terminata la distribuzione dei cuscini, è l'ora della raccolta degli oggetti pericolosi che accidentalmente si trovano nel campo e che potrebbero ferire i bambini. Chiodi, bottiglie di vetro, lattine, pezzi di filo spinato.

I bambini cominciano a fidarsi di me, o forse questo è quello che mi piace pensare.

Una bambina di dieci anni mi ha chiamato per mostrarmi quanto è brava a saltare la corda. A differenza di tanti suoi coetanei parla un buon inglese. Ride di gusto quando mi passa la sua corda e vede che ho l'agilità di una foca monaca. Chiama addirittura una sua amica. E la sua amica chiama le sue tre sorelle e il fratellino, che ha diciotto mesi e si chiama Joseph. Ridono, ridono e ridono. E io rido con loro. Che sia questo quel pizzico di felicità di cui mi ha parlato il coordinatore e che ieri non ero riuscita a trovare?

Non c’è tempo per farsi troppe domande e nemmeno per trovare delle risposte che possano piacermi.

Un signore che mi racconta di essere qui da un anno e due mesi si avvicina e mi chiede se può vedere il modello della mia Power Bank. Gliela mostro.

«Non è una buona marca. Spero tu l'abbia pagata poco». Gli rispondo che non so quanto costi perché non l'ho comprata io. «In Iraq vendevo telefoni». Poi, quasi a volerlo provare, tira fuori dalla tasca il cellulare e mi mostra immagini che lo ritraggono dietro al bancone di un negozio. Sorride.

«Tornerò a fare quel lavoro. Se ti incontro di nuovo ti vendo una Power Bank buona. Ok?». Rieccola, la dignità. Che qui fa rima con speranza, proprio come il nome della rete WiFi del campo. Nomen Omen, oggi più che mai.

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Il pianeta Diavata fatto di bellezza, dignità e novecento rifugiati
Destinazione campo profughi



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