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Sanità & Ricerca

Più donatori che corsie

Ormai il problema non è più la mancanza di organi, ma la grave insufficienza di strutture attrezzate. E nel Centro-Sud i pazienti, per farsi operare, continuano a trasferirsi all’estero

di Alessandra Camarca

«È morta aspettando il trapianto», «Sette trapianti, oggi cammina». Nel giro di poche settimane titoli così diversi sono apparsi sulle pagine delle cronache di due dei maggiori quotidiani italiani. In uno dei due articoli si condannava la pratica dei trapianti e l’universo medico che ruota intorno ad essi; nell’altro si osannava la branca medica che tramite il trapianto salva ogni anno almeno un migliaio di vite umane solo nel nostro Paese. Questa è ovviamente l’opinione schizofrenica della stampa. Vero è invece che nel 1995 sono stati effettuati in Italia1923 trapianti con un aumento del 30% di interventi. I trapianti d’organo e in particolare quelli di rene, cuore e fegato sono entrati nella routine dell’attività medica. Sono più di 300 mila le persone in tutto il mondo che vivono grazie ad un trapianto. La sopravvivenza di queste persone è buona e può superare i 20-25 anni di vita. Il successo è dovuto certamente al perfezionamento delle metodologie chirurgiche, ma soprattutto all’avanzamento delle conoscenze immunologiche che permettono di controllare il rigetto dell’organo trapiantato. «In Italia, si parla spesso», afferma uno dei responsabili dell’Aido, associazione italiana donatori degli organi, «di mancanza di donatori. Niente di più falso. Su un milione di abitanti si contano 7,8 donatori nel ’94 mentre nel ’96 si è giunti a 11. Il problema, non è la mancanza di consenso da parte delle famiglie del donatore, ma la difformità dell’efficienza delle strutture sanitarie regionali». Un esempio, a Napoli (dove proprio in questi giorni la magistratura ha aperto un?inchiesta sulla morte di una donna avvelenata da funghi e in attesa di trapianto di fegato), esistono ben due centri per i trapianti, all’università e all’ospedale Cardarelli. Eppure durante l’ultimo anno sono stati effettuati solo pochissimi interventi. «La regione Campania, a differenza di altre regioni», afferma Vincenzo Passarelli, dell’Aido «non ha rispettato l’accordo tra Stato e Regioni, nel quale si prevedeva un’azione programmata per quanto riguarda donazioni e trapianti. In questo progetto operativo lo Stato sollecitava le regioni a dotarsi di un modello organizzativo attraverso investimenti che andassero a potenziare i reparti di rianimazione degli ospedali, con posti letto, macchinari e personale specializzato». Così non è accaduto e non solo in Campania.«Il problema maggiore rimane quello della mancanza di organizzazione», afferma Nicola Pirozzi primario anestesista dell’Ospedale San Pietro di Roma. «In Italia esistono 4 grandi organizzazioni che si occupano di trapianti, ma non esiste un coordinamento nazionale ed una lista unica delle persone in attesa. È questa situazione a determinare ritardi e non il rifiuto dei familiari di donare gli organi della persona estinta, rifiuto che, come nel resto d?Europa, riguarda il 30 per cento della popolazione. Nel nostro Paese i donatori ci sono e tuttavia siamo tra le nazioni dove si fanno meno trapianti e dove i medici indirizzano spesso all’estero i propri pazienti, con aggravio di spese a carico personale e di rischi». Attualmente esistono due disegni di legge alla Camera che trattano la materia dei trapianti, uno sul consenso e uno sull’organizzazione a livello sanitario nazionale delle strutture mediche.


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