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Politica & Istituzioni

Un trapianto di amicizia

Leonardo Cioce, giovane barese, in una drammatica operazione a Miami ha ricevuto fegato, rene pancreas, stomaco e colon nuovi.

di Mara Mundi

Leggeri soffi di vento giocano a rincorrersi tra i sottili fili d?erba. È un giorno di sole. C?è tanta gente al parco di Bari. I cagnolini giocano sul prato, i bambini un po? li accarezzano, un po? li infastidiscono. Sabato mattina. Sembra quasi primavera. Leonardo Cioce si confonde con quella gente, allegra e spensierata. Ha grandi occhi celesti, i capelli castani. Indossa un giubbino imbottito, di quelli con la pelliccia. Sulla giacca brilla una spilletta: strisce e stellette per la bandiera americana, il tricolore per quella italiana. Sembrano allontanarsi. Ma sono unite. Indissolubilmente poggiano sul suo cuore. Leonardo, oggi, ha 33 anni. Ne aveva ventotto quando a Miami, con un complicato intervento di ben 36 ore, gli furono trapiantati cinque organi: intestino, fegato, pancreas, rene e stomaco.Una rara malattia, la poliposi familiare, ereditata dal padre, gli stava comprimendo tutti gli organi interni. Ridotto ad alimentazione parenterale da cinque anni, si nutriva solo di liquidi iniettati per endovena, con l?ausilio di una macchinetta. Era arrivato ad essere l?ombra di se stesso. Pesava solo 37 chili. «Dovevo stare attaccato a quella macchina per 20 ore al giorno. Spesso era mio padre a preparami la sacca, così io potevo restare un po? fuori con gli amici». Non era vita quella. Ottobre?90: il primo intervento, a Milano, per l?asportazione del colon. La malattia sembrava superata. Poi, nel ?92, in una notte di luglio, il ricovero d?urgenza. E l?operazione, alle quattro del mattino, al Policlinico di Bari.Occlusione intestinale. Leonardo non avrebbe più potuto mangiare. Solo liquidi iniettati. Solo un po? di acqua. «Qualche volta un po? di thé», ricorda. Comincia il calvario.Leonardo entra ed esce dall?ospedale, subisce interventi continui. Il suo intestino diventa di soli 40 centimetri. Si prospetta l?ipotesi del trapianto. Dieci mesi a Miami. Era il 15 luglio del 1995.: Leonardo cominciava la sua nuova vita. «Ora mi sento bene», dice, «Capace di condurre un?esistenza normale». Ha voglia di raccontarsi: «I trapiantati tendono a vivere in un mondo a parte. Soprattutto quelli di rene. Li vedi addirittura con le mascherine. Hanno quasi paura a darti la mano. Io invece non mi faccio troppi problemi. Certo, sto molto attento. Evito di toccare cose molto sporche. Raramente accarezzo gli animali, e se lo faccio, poi, mi lavo subito le mani. D?altra parte, oggi che posso finalmente mangiare, dopo cinque anni di digiuno, mi sembra tutto bello. Tutto buono. Anche le cose che prima non avrei mai mangiato, oggi le trovo deliziose». Fa una pausa. E conclude: «Sono pochissimi i farmaci che devo assumere». Sorride quando ci racconta che è la mamma a ricordargli orari e pillole. Ha una luce intensa negli occhi, Leonardo. La sciarpa nera intono al collo. Il giubbino imbottito sulle ginocchia. «È tutto bello per me, ora. Apprezzo ogni istante delle mie giornate. Stare qui, al parco, con il sole. Anche questo è molto bello».Un largo sorriso riempie la faccia, ancora un po? scarnita, di Leonardo. S?infervora, come tanti giovani del Sud, quando si parla del futuro dei lavoratori socialmente utili. Cassaintegrato dalla ditta dove era impiegato prima della malattia, anche lui è stato assorbito nei progetti delle Pubbliche Amministrazioni. Lavora al Comune di Bari. E si preoccupa un po? per la sua condizione di sussidiato con ottocento mila lire al mese. Ma ha una buona qualifica, Leonardo. È operatore-programmatore di computer. Sa di essere bravo. Intanto, si impegna ad organizzare un torneo provinciale di bowling a Bisceglie. È il vicepresidente di un club. Squilla il cellulare.Bisogna accertarsi che il podio sia pronto per la finale. Discute con un amico per trovare una soluzione comoda per il trasporto. Mette il telefono nel taschino interno della giacca. Poi, torna a raccontare, con un sorriso pieno e soddisfatto, tipico di chi è sicuro di aver fatto bene il proprio lavoro: «Sai, alla finale di domenica arriveranno da Bari e da Trani. Vogliamo che tutto sia in ordine. Ieri sono tornato alle due di notte a casa. Abbiamo controllato tutti gli impianti. Vogliamo curare ogni particolare. Le magliette, lo stemma, l?allestimento. La gara è anche questo. Ci si misura sulle piccole cose, non solo sullo strike». La sua passione per il bowling è nata proprio in America. Gli amici di sempre, quelli che conosce da quando era bambino, riuscirono a raggiungerlo a Miami. Una settimana insieme in quella terra lontana. «Lì le cose costano pochissimo. Pagai solo qualche dollari la mia prima palla da bowling. Mi appassionai a questo gioco. Gli altri lasciarono subito stare, ma io volli portarlo avanti a livello agonistico. E così sto facendo». Quegli amici, che lui con affetto definisce ?storici?, sono gli stessi che, cinque anni fa, fecero di tutto per contribuire alla colletta per Leonardo.Occorreva un miliardo per quel viaggio della speranza. Ogni giorno, alle sette del mattino, davanti alle chiese, vendevano dolci, torte, biscotti, per racimolare soldi. «Papà Silvestro, che per me aveva lasciato il lavoro, chiedendo il prepensionamento, arrivava con della focaccia appena sfornata, per riscaldarli un po». Il sole rende primaverile una giornata ancora d?inverno.Brilla la spilla sulla giaccia grigia di Leonardo. È facile capire, ora, che quelle due bandiere, non si divideranno mai. «Ora i miei organi interni ora stanno bene», dice, «hanno un altro dna, non conoscono la mia malattia». Un dna americano.


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