Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Media, Arte, Cultura

Marlon Brando. Fine di un attore senza fine

Pubblichiamo stralci del ricordo del grande attore uscito oggi sull'Unità a firma Alberto Crespi

di Redazione

Pubblichiamo stralci del ricordo del grande attore uscito oggi sull’Unità a firma Alberto Crespi. Ogni volta si dice: se n´è andato l´ultimo dei grandi, la vecchia Hollywood non esiste più, eccetera eccetera. Stavolta è vero. Giovedì è morto Marlon Brando in un ospedale di Los Angeles. Se n´è andato, molto semplicemente, il più grande, e in quanto alla vecchia Hollywood non esiste più da molto tempo: è stata uccisa dalla Modernità, e fra i killer c’era anche lui, che negli anni ´50 contribuì in maniera decisiva a cambiare il modo di recitare, di pensare, di creare il cinema. Su Marlon Brando si può ripetere lo stesso giudizio che a suo tempo usammo per Cassius Clay/Muhammad Ali. Ali non è stato il più grande pugile di tutti i tempi dal punto di vista tecnico, ma è stato indiscutibilmente il più importante atleta del XX secolo per motivi etici, storici, umani. Brando non è stato probabilmente il miglior attore della storia perché in molte occasioni era troppo «overacting», troppo istrione e innamorato di se stesso, ma è stato il più importante divo di sempre perché ha dato al divismo una dimensione ulteriore, che non aveva prima della sua apparizione. Più grande di lui (più grande di tutti) c’è stato solo Chaplin, che era molto più di un attore. Il motivo dell?importanza di Brando è semplice: ha preso d´assalto Hollywood in un momento in cui Hollywood era in crisi e aveva bisogno di lui, e di quelli come lui. A differenza dei divi dell’età dell’oro (i Gable, i Wayne, i Cooper), Brando non nasceva con il cinema: nel ´50, quando interpretò Uomini per la regia di Fred Zinnemann, aveva già un notevole curriculum teatrale ed era il campionissimo del Metodo, la tecnica di recitazione codificata da Stanislavskij e importata in America dall’Actors’ Studio di Lee Strasberg. In teatro era già un dio: si «abbassò» al cinema perché al cinema gli dei sono molto più pagati e raggiungono un numero infinitamente maggiore di fedeli. Solo che lui, e quelli della sua generazione (i Clift, i Newman, i Dean) erano diversi dalle star di una volta: figli della Depressione (Marlon era nato a Omaha, Nebraska, il 3 aprile del 1924), cresciuti nell´America inquieta degli anni ´30, passati giovanissimi nel vortice della guerra, baciati giovani dall’euforia e dalle nuove libertà del dopoguerra, erano ragazzi indipendenti e volitivi. Non si sarebbero prestati al gioco degli studios, non si sarebbero fatti programmare la carriera da qualcuno: avrebbero fatto ciò che volevano, come volevano. Con Marlon Brando l’attore, a Hollywood, prende il potere. Basta con le estenuanti gavette in ruoli di contorno, basta con i pericolosi lavori da stunt-man, basta con i film fatti in catena di montaggio (anche uno al mese). Comincia l´epoca dei divi che ottengono ruoli da protagonista all´esordio, si fanno strapagare e girano uno-due film all´anno, preparandoli con il tempo e la cura prima riservati ai registi. Non è certo un caso che subito dopo Uomini, nel 1951, Brando e un altro caratterino al fulmicotone, il regista Elia Kazan, riescano ad imporre alla Warner l´adattamento cinematografico di un classico teatrale, Un tram che si chiama desiderio, che insieme hanno già portato al successo sui palcoscenici di Broadway. Caso più unico che raro, Kazan riesce a fare il film con lo stesso cast della produzione teatrale: oltre a Brando, Vivien Leigh, Kim Hunter e Karl Malden. Caso altrettanto bizzarro, vincono tutti l´Oscar tranne Marlon, che viene solo candidato. È la prima di 8 nominations che sfoceranno in due premi (Fronte del porto 1954, e Il padrino, 1972) e in un rapporto quanto meno controverso con l´Academy che assegna il famoso premio. Tutte le sue biografie sottolineano con una certa malignità che nel ´72 Brando rifiutò sì il premio, inviando al suo posto una sedicente principessa indiana che pronunciò, ritirando la statuetta, una dura requisitoria sui diritti dei nativi americani; ma due anni prima aveva chiesto all´Academy una nuova copia dell´Oscar vinto nel ´54, visto che aveva perduto l´originale. Bizze da divo, che gli andavano perdonate. D’altronde è sempre stato un tipo strano, lunatico, paradossale. E la stranezza si è riversata tutta, oltre che nella sua arte, nei suoi matrimoni, nelle sue innumerevoli relazioni, nel triste destino che gli ha portato via diversi dei numerosi figli. Torniamo ai film. L’inizio della sua carriera è sorprendente. Dopo il dramma di Tennessee Williams, sceglie il ruolo del rivoluzionario messicano Emiliano Zapata e, subito dopo, passa a Shakespeare. Il suo monologo di Antonio nel Giulio Cesare di Mankiewicz è da manuale (memorabile anche il modo in cui lo doppia Emilio Cigoli: ma sulle voci italiane di Brando occorrerebbe un capitolo a parte). Altro giro, altro salto mortale: Il selvaggio, film oggi malamente invecchiato, crea il mito del ribelle in motocicletta e giubbotto di pelle; poi Fronte del porto lo consegna alla leggenda, Desiree lo consacra indistruttibile (interpreta Bonaparte ed è clamorosamente fuori ruolo: il film è talmente brutto che stroncherebbe la carriera di chiunque, ma non la sua), Bulli e pupe lo riscatta alla grande svelando al mondo che, con quella vocetta da cartone animato, sa anche cantare! In Pelle di serpente – e siamo ormai nel ´59 – tiene testa alla Magnani, e non è da tutti. Poi si ferma due anni, un po´ per colpa dell´unico che poteva metterlo in crisi: si mette a scrivere un western assieme a Stanley Kubrick e lo scontro di ego è talmente ciclopico, che uno dei due deve cedere. Cede Kubrick, che gli regala il progetto (una riscrittura sadico-messicana della storia di Billy the Kid) e se ne va in Inghilterra a girare Lolita; Brando, per ripicca, sostituisce Stanley… con se stesso, firma anche la regia e confeziona I due volti della vendetta, un western stranissimo e feroce nel quale si diverte a farsi frustare a sangue dal vecchio amico Karl Malden. Subito dopo saluta tutti, va a girare il Bounty (il film esce nel ?62) nei mari del Sud ed è come non tornasse più: compra un atollo, sposa una donna di Tahiti e si reclude nel proprio Mito. Diteci voi se questa è una carriera all´insegna del «normale» marketing hollywoodiano. Nossignori. E non è nemmeno, credeteci, una carriera nel nome dell´anarchica libertà. Qui è in gioco un marketing ancora più alto e sopraffino, la lucida costruzione di una leggenda: pochi film (alla fine sono una quarantina, e dopo Il padrino quasi tutti ruoli brevi) spesso bizzarri, all´insegna del verdoniano «fàmolo strano», un uso sapiente dell´assenza (è il primo divo uomo a capire, come la Garbo, che il silenzio vale più di mille parole), un geniale stillicidio di notizie spesso in contraddizione fra loro. Persino l´annuncio della morte, venerdì, si è sparso in modo misterioso, prima attraverso il sito internet e di una tv dell´Arizona e poi con riluttanti conferme delle agenzie e delle fonti ufficiali. Verrebbe da pensare che ha diretto anche la propria morte, dopo aver gestito in modo intelligentissimo la propria carriera. C’eravamo fermati al Bounty, scelta di vita, più che di cinema. È giusto, negli anni successivi, ricordare La caccia di Arthur Penn (1966) in cui tiene a battesimo un possibile erede, il biondo Robert Redford; il perverso Riflessi in un occhio d´oro dove, strano a dirsi, lo doppia Gigi Proietti; le avventure italiane di Queimada, di Gillo Pontecorvo (1969), e di Ultimo tango a Parigi, che ferma il 1972 come anno d´oro: è lo stesso del Padrino, dove gioca a invecchiarsi riempiendosi le guance di kleenex e inventandosi uno strepitoso accento italo-americano (lì lo doppia, in modo superbo, Giuseppe Rinaldi). Dopo il mitico ´72 bisogna aspettare il ´76 per rivederlo, ancora diretto da Penn, in Missouri, altro stravagante western dove ruba la scena, nei panni di un cacciatore di taglie dedito al travestitismo, al ladro di cavalli Jack Nicholson. Poi, nel ´78, entra nella storia per l´iperbolico compenso ricevuto per Superman (4 milioni di dollari per circa 10 minuti di film). Infine, nel ´79, Apocalypse Now: la voce italiana che mormora per lui «l´orrore, l´orrore» è di Sergio Fantoni, e ci piace chiudere qui, facendo finta che Marlon Brando sia morto come il colonnello Kurtz, ultimo dinosauro sepoltosi nella giungla in attesa di un ufficialetto stronzo che andasse a dargli il colpo di grazia. Dopo quel capolavoro, non c´è stato più nulla così enorme, così esagerato, così colossale. Lui, Marlon, era ancora grande. Ma è il cinema, che è diventato piccolo.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA