Attivismo civico & Terzo settore

Gaza, la nostra cattiva coscienza

L'editoriale/ Impressionante il bilancio delle vittime palestinesi: 67 morti e 275 feriti in sette giorni. Appello ai politici.

di Riccardo Bonacina

In sette giorni 67 morti e 275 feriti, 43 dei quali in condizioni gravi: questo l?impressionante bilancio aggiornato al 7 novembre delle vittime palestinesi a causa della operazione «Nuvole autunnali» (sic!), lanciata mercoledì 1° novembre dall?esercito israeliano per debellare i lanciatori di razzi appostati nel nord della Striscia di Gaza. Undici morti al giorno; tra loro donne, passanti, insegnanti, infermieri, e bambini, bambini che vanno ad aggiungersi agli altri 70 già uccisi nel 2006 sulle strade sterrate e sporche della Striscia di Gaza. Una decina di raid in sette giorni che vanno ad aggiungersi agli oltre 300 già effettuati nel 2006 e che hanno distrutto case, botteghe, uliveti e aranceti. In quella striscia di 360 chilometri quadrati, che è poi una quasi prigione (dei due valichi di frontiera ne è rimasto aperto uno solo), vivono un milione e 400mila persone, il 79% di loro può contare su meno di 2 dollari al giorno, il sistema fognario è quasi del tutto distrutto, l?energia elettrica funziona ad intermittenza, l?unica cosa certa è la disoccupazione e la razione giornaliera di morti ammazzati. Di tutta questa quantità industriale di violenza più che ?sproporzionata?, e della conseguente sofferenza che non può che tramutarsi in odio, non ci arriva più neppure notizia. Il disastro di Gaza non interpella più neppure la comunità internazionale e la stessa Europa. A ricordarci questo buco nero della nostra coscienza, due voci autorevoli che hanno preso parola domenica 5 novembre. La prima, quella di Benedetto XVI che ad alta voce ha richiamato «le Nazioni che hanno una particolare responsabilità nella regione affinché si adoperino per far cessare lo spargimento di sangue, moltiplicare le iniziative di soccorso umanitario e favorire la ripresa immediata di un negoziato diretto, serio e concreto». E tra queste nazioni c?è anche l?Italia, che in Libano ha assunto un ruolo guida. La seconda, quella di David Grossman che alla cerimonia per l?undicesimo anniversario dell?assassinio di Rabin e a tre mesi dalla morte in Libano del figlio Uri, ha detto davanti a 100mila persone radunate per l?occasione: «Con l?esercito in campo Israele ha mostrato i muscoli ma in realtà ha solo rivelato la sua fragilità. Abbiamo scoperto che la forza militare non può alla fine assicurare da sola la nostra esistenza. Israele è in una profonda crisi, più profonda di quanto temessimo. Parlo stasera qui come una persona il cui amore verso questo Paese è un amore difficile e complicato e nonostante ciò innegabile. E parlo come qualcuno il cui eterno legame con la nazione è sfortunatamente diventato un legame di sangue. La morte dei giovani è uno spreco orribile. Come possiamo continuare a stare di lato a guardare, come fossimo ipnotizzati, davanti al prevalere della follia e dell?arroganza, della violenza e del razzismo nel nostro Paese? Rabin scelse la strada della pace con i palestinesi non perché aveva una grande predisposizione verso di loro. Ha capito prima degli altri che la vita in un clima di violenza, di occupazione, di terrore, di ansie e mancanza di speranze è un prezzo che Israele non può pagare. Queste cose sono vere anche oggi, ancora più gravemente. Che cosa possiamo fare in questa situazione? Continuare a soffocarli ancora e ancora? Continuare a uccidere centinaia di palestinesi a Gaza, la maggior parte dei quali sono civili innocenti come noi? Ucciderli e essere uccisi da loro, senza fine? Parli ai palestinesi, signor Olmert». Parlate con gli israeliani e con i palestinesi signori Bush, D?Alema, Solana, signora Ferrero-Waldner. Non state a guardare.


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