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Quella corsa giunta sino a noi

Editoriale di Vita magazine in edicola. Il nuovo film di Ermanno Olmi insiste su un punto che può sembrare sconcertante: le religioni non hanno mai salvato gli uomini. Eppure la Pasqua....

di Giuseppe Frangi


Il nuovo bel film di Ermanno Olm iracconta di un personaggio strano, un professore di filosofia di Bologna che, ad un certo punto della sua vita, improvvisamente decide di ritirarsi a vita eremitica sulle sponde del Po. A poco a poco, il personaggio si svela, riempiendo tutti (anche gli spettatori) di uno «stupore intenerito» (lo confessa Natalia Aspesi su Repubblica). Pochi gesti e pochi racconti fanno subito capire chi potrebbe essere. Il racconto della moltiplicazione dei pani, quello del figliol prodigo. Poi la gente che si raduna attorno al tavolo per una cena, i contadini che fanno a gara per averlo ospite a casa propria. È un Cristo, «un Cristo della strada» come lo definisce il regista. Che durante il film insiste su un punto che può sembrare sconcertante: le religioni non hanno mai salvato gli uomini. Un’affermazione così, di questi tempi, sarebbe tacciata di relativismo o addirittura di intolleranza verso esperienze spirituali che comunque hanno portato serenità a milioni di persone. Ma il paradosso di Olmi è quello di farlo pronunciare a un Cristo redivivo. E questo è il punto, che prende ancor più risalto perché incrocia, per tutti noi, i giorni della Pasqua. Olmi ribadisce: Cristo non è il fondatore di una delle tante e nobilissime (in realtà non sempre nobilissime) religioni. Cristo è un uomo che porta nella storia una speranza mai prima sperimentata dagli uomini, proprio perché reale, incarnata, provvista di un volto e di una fisionomia precisa. Una speranza molto ragionevole, che non ha bisogno di stati d’animo fuori dalla norma per essere recepita; una speranza a misura della normalità della vita. E in cosa consiste questa speranza? In ciò che qualsiasi uomo ha come desiderio più profondo e costitutivo: sperimentare la pienezza della felicità (quella che nessuno meglio di Dante ha saputo rendere nella sua irresistibile immediatezza: «…’l venerabile Bernardo si scalzò prima, e dietro a tanta pace corse e, correndo, li parve essere tardo»).

C’è un brano del Vangelo che meglio di ogni altro racconta di questa felicità. È quello dei due discepoli di Emmaus, due sempliciotti che hanno l’avventura di fare la strada verso quel villaggio a pochi chilometri di Gerusalemme in compagnia di Cristo, senza riconoscerlo. Lo credevano morto, come tutti. Perché realmente era morto. Quando invece alla fine capiscono che è proprio lui, è come se l’intera vita per loro si rimettesse in movimento. E non è un caso che si mettano a correre, proprio come il Bernardo dantesco, per diffondere e condividere la straordinaria notizia.

Perdonate la lunga premessa ?religiosa? (ma religiosa non è?). Però quando pensiamo alla Pasqua ci viene sempre in mente l’immagine bellissima (e assai poco clericale) di quei due ragazzi che corrono. Il loro impeto, la loro baldanza, il loro slancio. È una dimensione molto umana, che esprime il desiderio di abbracciare il mondo, per farlo partecipe di quello che loro hanno incontrato. Il desiderio di spaccare la crosta degli egoismi. Sicorre così anche perché si è forti di una certezza ?morale?: la certezza che al fondo delle cose e della vita c’è un destino buono. Non si avesse questa sicurezza la corsa sarebbe esitante, guardinga, ultimamente affannosa. E l’angoscia di non arrivare a meta prevarrebbe.

Invece quegli uomini si erano messi a correre senza timore. E il positivo che hanno immesso nella storia è ancora esperienza viva, sperimentabile per gli uomini di oggi. Ed è così vera che è anche raccontabile, come consapevoli di tutti i nostri limiti, cerchiamo di fare, ogni settimana, da queste colonne. Buona Pasqua a tutti.

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