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Che cosa abbiamo capito in quell’11 settembre

Yalla Italia con VITA 35/2007: L'editoriale, di Khalid Chaouki

di Redazione

11 settembre 2001. Una data che ha preso posto con prepotenza nella storia dell?umanità e che a distanza di sei anni continua ad essere ricordata e nominata provando nello stesso momento l?identica sensazione di quella tragica mattina. Una data che ha pesato come una condanna senza possibilità di appello per tutti i musulmani nel mondo, in quanto in quel preciso momento migliaia di persone in Occidente hanno odiato l?Islam, i musulmani e il mondo arabo senza preoccuparsi di fare distinzioni o trovare eccezioni. La loro reazione in quell?istante era probabilmente giustificata, ma noi musulmani di tutto il mondo non avevamo nessuna colpa rispetto a quello che era successo, anzi ne eravamo semmai le prime vittime. Ricordo che perfino i miei vicini di casa iniziarono a guardarmi con sospetto. Quella giornata e soprattutto i mesi successivi mi hanno visto lottare su due fronti con la stessa intensità: da una parte dovevo urlare a squarciagola il mio, il nostro no alla violenza e al terrorismo arrivando quasi a dover giustificare alla società dove ero cresciuto e che sentivo mia la motivazione per cui ero musulmano. Dall?altra parte, dovevo scuotere i miei fratelli e le mie sorelle dal loro lungo sonno sbattendo loro in faccia la drammatica realtà di cui forse non se ne resero veramente conto: migliaia di persone innocenti erano state massacrate in nome del nostro Dio, del nostro Profeta e del nostro Corano. E non si trattava dell?ennesimo attentato a cui purtroppo il terrorismo di matrice islamica ci aveva abituato, e che ?bastava? liquidarlo con il comunicato di condanna standard da spedire alle agenzie stampa. No. Questa volta era successa una grande tragedia e persone come l?ex imam di Torino, Bouchta Bouriqui che s?ingegnavano a cercare le prove del coinvolgimento o meno di Osama Bin Laden e a investigare le possibili cause di quel massacro, facevano semplicemente il gioco di chi non aspettava altro che attaccare l?Islam e i musulmani. Questi nostri improvvisati Mr. Islam erano più dannosi di chi invece aveva deciso di portare i panni dell?islamofobo come professione, assicurandosi così una brillante carriera. Da persone di fede e insieme ai nostri fratelli cristiani ed ebrei decidemmo allora che l?unica cosa da fare per evitare il crollo totale di quel piccolo e fragile ponte che eravamo riusciti a costruire, era rilanciare ancora con più forza il dialogo interreligioso, un dialogo in primis tra persone. Si aprì una nuova fase di dura autocritica interna tra i musulmani, in cui le componenti più ragionevoli avevano condannato una volta per tutte qualsiasi forma di violenza, la strategia fondata sull?ambiguità del doppio linguaggio e l?avvio di un dialogo con i non musulmani vissuto come principio di fede, fautore della convivenza pacifica e non semplicemente un elemento secondario di public relation. Da quel tragico giorno fummo costretti, io insieme a tanti miei coetanei, a rimetterci sul serio nello studio del Corano, della vita del profeta Muhammad e a seguire con attenzione gli scritti e gli interventi dei sapienti più illuminati del panorama islamico. Dovevamo individuare una inedita posizione di equilibrio interiore che rafforzasse il nostro convincimento che Bin Laden e i suoi amici non avevano nulla a che fare con la nostra fede e con l?Islam, bensì ne erano i peggiori manipolatori. D?altra parte dovevamo ripensare una nuova formula di cittadinanza attiva che riportasse fiducia tra noi e i nostri concittadini di altre fedi, trovando la perfetta sintesi tra l?essere nuovi cittadini e nello stesso momento buoni musulmani. Un sfida che a distanza di sei anni da quell?11 settembre ci riserva ancora un duro lavoro e che non potremo mai superare senza l?aiuto e il sostegno di tutti i musulmani e della società che ci ha allevati e di cui ci sentiamo parte integrante.


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