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Attivismo civico & Terzo settore

La dignità del lavoro, prima questione sociale

L'editoriale/ Aprile 2003-aprile 2007: 3.250 i militari della coalizione che hanno perso la vita in Iraq. Mentre dal 2003 al 2006, nel nostro Paese i morti sul lavoro sono stati ben 5.252

di Riccardo Bonacina

La storia e le facce di Antonio Schiavone, di Bruno Santino, di Roberto Scola, di Angelo Laurino, operai morti alla ThyssenKrupp di Torino, acciaieria in via di dismissione, lo scorso 6 dicembre; le facce, il dolore e la rabbia dei loro familiari e compagni sono riusciti a far sobbalzare, almeno per un po?, l?Italia, aggiungendo spessore di esperienza, di sofferenza, e perciò di vita alle statistiche di per sé già orribili. Come ha sottolineato l?Eurispes pochi mesi fa in un?indagine commissionata dal Parlamento: «Infortuni sul lavoro: peggio di una guerra». Dall?aprile 2003 all?aprile 2007 i militari della coalizione che hanno perso la vita in Iraq sono stati 3.520, mentre, dal 2003 al 2006, nel nostro Paese i morti sul lavoro sono stati ben 5.252. Un incidente ogni 15 lavoratori, un morto ogni 8.100 addetti. La loro storia, e quella dei loro compagni Rocco Marzo, Giuseppe de Masi e Rosario Rodinò, ancora ricoverati in gravissime condizioni, la loro vicenda di giovani operai che accumulano ore di straordinario in quel che resta della fabbrica fordista, per poter immaginare con un poco meno di ansia quel che sarà di loro e dei loro cari, e di un lavoro da reinventare a 35/40 anni, una volta che il mostro siderurgico chiuderà i battenti, in cerca di altri lidi e altra e più conveniente mano d?opera per fare più profitti, è una vera icona delle trasformazioni del lavoro oggi. La loro vicenda, infatti, non mette in rilievo solo le inefficienze dei sistemi di sucurezza e dei controlli (7mila ispettori per 5 milioni di aziende), o le vergogne di uno Stato che prende senza dare (il tesoretto Inail di 12 miliardi di euro prelevati ai lavoratori che hanno visto ridursi gli indennizzi in caso di infortunio o malattie professionali), o, ancora, tutti gli affanni di un sindacato che neppure riesce a difendere il potere d?acquisto dei salari. No, quel dolore urlato nelle strade di Torino rompe il silenzio su tutte le sconcezze consumate sul lavoro come «chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale». Aveva giustamente sottolineato il papa operaio Giovanni Paolo II nella Laborem exercens nel settembre 2001, l?ultima grande riflessione sul lavoro che io ricordi. Non stiamo parlando del mercato del lavoro duale: da un lato chi ha contratti a tempo indeterminato, e da un altro chi salta da un contratto a termine a un contratto a progetto, o simili. Non stiamo parlando della sicurezza sul lavoro, ma di qualche cosa che sta prima, e di cui l?insicurezza è solo un?ovvia conseguenza. No, come insegna la tragedia di Torino, la questione è più grave e più complessa. Più grave, perché sono sempre più evidenti i segni di uno schiavismo di ritorno ed evoluto, nelle case degli italiani, nelle redazioni dei giornali, sui cantieri edili, nei campi, nei servizi. E nessuno si senta escuso, neanche il Terzo settore e la cooperazione sociale. La questione del lavoro lo riguarda, riguarda 6mila cooperanti in giro per il mondo con contratti aleatori, riguarda la cooperazione sociale e i suoi contratti a termine e i 900 euro al mese. Tutti devono fare i conti con questa tendenza alla messa al lavoro delle vite degli individui senza riconoscere dignità, valore, e quindi un minimo di assicurazioni e prospettive. La questione del lavoro è complessa perché una cosa è essere poveri in una società fondata sul lavoro e che tende a un regime di piena occupazione, un?altra è essere poveri in una società in cui le identità individuali e i progetti di vita si costruiscono a partire dai consumi e non più dal lavoro e dai profili professionali. Un tempo essere povero significava essere disoccupato. Oggi la povertà è legata ai livelli di consumo. Corriamo verso un modello di capitalismo senza più lavoro. Tutto sembra indicarlo. La produttività cresce in maniera tale da rendere sempre meno necessario il lavoro. Anche le banche lo stanno capendo, e ormai non postulano più la costanza reddituale delle persone stipendiate. Ventisei anni fa, il Papa operaio nella sua bella enciclica scriveva: «Il lavoro porta su di sé un particolare segno dell?uomo e dell?umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura». Ecco la dimensione che è stata violata, violentata, sconciata in questi ultimi decenni. E avvertiva: «Conviene riconoscere che l?errore del primitivo capitalismo può ripetersi dovunque l?uomo venga trattato, in un certo qual modo, al pari di tutto il complesso dei mezzi materiali di produzione, come uno strumento e non invece secondo la vera dignità del suo lavoro – cioè come soggetto e autore – e per ciò stesso come vero scopo di tutto il processo produttivo». Oggi, senza che neppure ce ne accorgiamo, si sta rompendo la secolare alleanza tra capitalismo, Stato sociale e democrazia. La democrazia è sempre stata una democrazia fondata sul lavoro, perché solo chi ha un posto di lavoro ed una casa gode dei diritti civili, sociali e politici. I cittadini privi di lavoro e alla mercé dei nuovi caporali smettono di rendere la democrazia viva e forte. In Francia, qualche mese fa, Sarkozy ha fatto una campagna elettorale intorno allo slogan: «Ridare valore al lavoro». Noi siamo alle prese con l?ennesima, inutile legge o leggina sulla sicurezza. Il tutto annegato in discussioni sulla legge elettorale, sulle alleanze tra partiti che non reggiamo nemmeno più, e su decreti omnibus fatti apposta per consumare vendette politiche. Vogliamo rimettere a tema la dignità e la centralità del lavoro prima che il neocapitalismo si divori le nostre stesse vite?


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