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Cooperazione & Relazioni internazionali

Non mi schiero perché voglio di più

Il conflitto e noi

di Redazione

«In quest’ultima guerra, da che parte stai?» mi è stato chiesto. E io rispondo: sono per il diritto alla vita, prima di tutto, e per il diritto ad avere dei diritti, in secondo luogodi Rassmea Salah
Quando si parla di guerra, di conflitto o di un semplice litigio, ci sono sempre due o più parti contrapposte che fanno di tutto per avere ragione, prevaricando l’una sull’altra. E come in una qualsiasi partita di calcio, senza badare alla complessità dello scontro in atto, ci viene chiesto da che parte stiamo, per chi tifiamo. Come se la questione non potesse prescindere da questo aut-aut: o con noi o contro di noi. Ho sempre rifiutato di prendere delle posizioni a priori, rincorrendo le masse o chissà quali ideologie. Ho sempre considerato essenziale riflettere autonomamente su quanto ci circonda, cercando di avere una personale visione del mondo.
Crescendo mi è spesso capitato di assistere a vari conflitti, da quelli familiari a quelli bellici a livello internazionale, e in ogni situazione ho sempre cercato di capire le ragioni delle due parti ma anche i loro torti. Ed ogni volta che scorgevo evidenti disparità di forza fra le due parti, mi accorgevo di sentirmi più vicina a chi il conflitto lo subiva, perché più debole, perché inerme di fronte alla forza altrui, perché incapace di proteggersi o semplicemente perché non aveva gli strumenti adatti per affrontare lo scontro ad “armi pari”. Mi sono sempre schierata dalla parte di chi aveva bisogno di aiuto, e questo ha fatto crescere in me un profondo senso di giustizia.
«In quest’ultima guerra, da che parte stai?» mi è stato chiesto.
Sto dalla parte della società civile, dei diritti umani e della libertà.
Sono per il diritto alla vita, prima di tutto e per il diritto ad avere dei diritti, in secondo luogo.
Sono per il diritto ad avere uno Stato che rappresenti legittimamente il suo popolo.
Sono per il diritto dei cittadini alla propria terra, all’acqua, alla libertà di movimento che permetta loro di uscirne così come di ritornare.
Sono per il diritto a vivere una vita normale, senza dover patire il quotidiano incubo di non poter far ritorno a casa per colpa di una bomba che mi taglia la strada, di un muro che me la sbarra o di uomo che si fa saltare in aria mentre sono seduta sul bus.
Mi sento vicina a tutte le vittime di questa ultima irrazionale guerra e sono per gli oppressi a cui vengono negati tutti questi diritti. Penso che noi europei, musulmani ed ebrei, dovremmo guardare a questo maledetto conflitto dall’alto (anche geografico) della nostra Europa senza farci travolgere dall’emotività, dal rancore o dalla rabbia che dominano in Medio Oriente e che i nostri genitori vorrebbero ad ogni costo trasmetterci. Dovremmo semplicemente prendere le parti dei più deboli, degli oppressi, dei civili innocenti che stanno pagando con la vita qualcosa di cui non hanno responsabilità. Che poi questi ultimi siano africani, cinesi, indiani, israeliani o palestinesi non deve interessarci. Che siano buddisti, atei, cristiani, ebrei o musulmani, men che meno. Dobbiamo stare dalla parte della giustizia e della società civile a prescindere dalla nazionalità e dalla religione.
Come scrisse Amos Oz nel 2001: «A voi europei tocca riservare ogni oncia di aiuto e solidarietà a questi due pazienti, sin d’ora. Non dovete più essere pro Israele o pro Palestina. Dovete essere per la pace.» Bisogna depoliticizzare la questione e guardare insieme verso un orizzonte comune chiamato Shalom, Pace, Salam.


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