Politica & Istituzioni

L’auto è salva, la persona no

Una dura analisi del "piano Marchionne" alla vigilia del referendum di Mirafiori

di Redazione

Lo confesso. Mi riesce difficile resistere all’emotività. Non ce la faccio a mantenermi freddo e razionale di fronte allo spettacolo, per me indecente, di un signore che dall’alto dei suoi quattro milioni e mezzo di reddito prende per la gola alcune migliaia di suoi simili già messi con le spalle al muro dalla crisi, con salari falcidiati dalla cassa integrazione e la vita appesa al filo della sopravvivenza della propria fabbrica. La prepotenza ostentata mi ha sempre offuscato la vista.
Lo so che dovrei fare i conti con la globalizzazione, la competitività, l’altalena cui è appeso il mercato dell’auto, i fondi pensione americani, i 20 miliardi di euro promessi (promessi!?), “le magnifiche sorti e progressive” della modernità che viene e che ci incalza.
Ma se devo parlare del “caso Fiat” e della politica messa in atto da Sergio Marchionne, non posso dimenticare che lì si tratta comunque, e in primo luogo, di persone. E che – andatevi a leggere con attenzione il testo di quella bozza di accordo sottoscritto – il concetto stesso di persona vi ha subìto un vulnus grave. Non si trattano così neanche i cavalli.
Le ho lette e rilette quelle 78 pagine in formato A4, con sotto, a ogni pagina, le sigle dei firmatari, e non vi nascondo che ho provato una sensazione di malessere fisico. Per l’asimmetria che rivelano. Per il differenziale di potere di cui trasuda quel documento, con da una parte uno che impone tutto, e dall’altra chi deve subire tutto. Leggetevi le pagine relative alla gestione degli orari, per esempio, con tre, quattro menu à-la-carte, con la notte obbligatoria e a rotazione, il sabato a disposizione dell’azienda, se serve magari anche giornate lavorative di 10 ore con recuperi la settimana dopo, occupati tuttavia, a discrezione dell’azienda, dallo straordinario obbligatorio (120 ore, talvolta fino a 200?). Sono le vite delle persone, quelle unità di tempo ridotte ad appendici di un piano produttivo variabile a discrezione.
Oppure leggetevi la regolamentazione della “Commissione paritetica di conciliazione”, posta esclusivamente a tutela dell’impresa (dei “diritti” dell’impresa, recita il testo), e presieduta statutariamente da un rappresentante di essa. E quella relativa alle giornate di malattia, con il tasso medio di assenteismo tollerato stabilito a priori per l’intero stabilimento a scendere: 5% il primo anno, poi 4%, infine 3,4% (e se scoppia un’epidemia d’influenza?), al di sopra del quale scatta la possibilità di non remunerare i primi due giorni di assenza se posti nelle vicinanza delle pause festive, con la sola promessa di una particolare “attenzione” per i malati di cancro…
È appena mascherata da un leggero understatement, ma la parte riguardante l’esercizio del diritto di sciopero prevede il licenziamento (“infrazione disciplinare”, dice) per chi increspa la superficie liscia del piano aziendale con la forma tradizionale di protesta che da sempre il lavoro ha usato. E la rappresentanza in fabbrica è riservata solo a quelle sigle che hanno accettato il diktat – anzi, ai “delegati” in azienda stabiliti dalle segreterie nazionali!!!), trasformate volenti o nolenti, consapevoli o meno, in meri tutori dell’ordine produttivo.
Si dirà che è il prezzo da pagare, per la sopravvivenza della fabbrica. Per impedire che il “capitale” emigri altrove, come un tempo doveva fare il lavoro. E forse è così (“forse”, perché in Paesi di solida cultura industriale come la Germania o la Francia le cose non stanno in questo modo). Ma resta il fatto che è un prezzo “disumano”. Che umilia le persone. Che nega la dovuta dignità a chi è costretto a offrire la propria vita in cambio di un salario. Lo spoglia di diritti acquisiti che avevano fatto del lavoratore un “cittadino”. E ci rende tutti meno liberi.


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