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Non ci vuole un buon fedele per disegnare una bella chiesa

Mario Botta

di Luca Fiore

Come un quadro di Malevic. È una chiesa tutta nera. Con un solo grande elemento di fondo con tre absidi che vengono disegnate da una parete inclinata, e questa parete è rossa. Rosso cardinalizio. Pam! Nella parete rossa, che poi è il soffitto, si apre una croce di luce. Tutto il resto, nero. Quando ci penso di notte mi vengono i brividi».
Mario Botta la descrive così la sua ultima chiesa, progettata per la parrocchia di Sambuceto a San Giovanni Teatino (presso Chieti), la cui prima pietra è stata posata lo scorso 13 marzo alla presenza di mons. Bruno Forte, vescovo di Chieti-Vasto. «È una chiesa di una grande potenza. E pensi che il primo progetto me l’hanno rifiutato perché non era abbastanza forte. “Mario”, mi ha detto mons. Forte, “ti avevo chiesto una chiesa forte. Tu mi hai fatto una bella chiesa. Non mi basta. Ho bisogno qualcosa che riscatti il Sud, che riscatti la cultura meridionale, voglio essere di esempio a Milano”. Allora gliel’ho fatta “forte”, come voleva. Ora sono curioso di vedere cosa succede, perché alla posa della prima pietra ho preso un po’ di paura: alla messa c’erano tremila persone, e ho percepito un’attesa incredibile. E quando c’è così tanta aspettativa si rischia anche di deludere. Però, se non si rischia, non ci sono chance».
Da che cosa parte quando le viene affidato il progetto di una chiesa?
Una chiesa oggi pone moltissimi problemi. La prima reazione è la sorpresa, è sorprendente che ci sia una commessa. In una società secolarizzata, apparentemente lontana dai problemi dello spirito, continua a esserci la domanda di uno spazio predisposto al silenzio, alla meditazione e alla preghiera. L’altra grande domanda che si pone chi deve progettare è come interpretare oggi il bisogno di sacro. La mia generazione è orfana di modelli perché le avanguardie, penso a Duchamp e a Picasso, hanno stravolto non solo il senso estetico, ma anche il senso etico del rapporto fra l’uomo e il proprio spazio. Infine, è cambiato il nostro modo di vivere questo evento straordinario che è la funzione liturgica. Il compito dell’architetto è quello di interpretare, di cercare di capire quali sono ancora gli spazi riservati per questa attività particolare in una società che grida, in una società rumorosa, che corre. La sfida oggi è risolvere il rapporto tra la chiesa e il contesto in cui essa si va a collocare.
Come nel caso del campanile del Santo Volto a Torino.
Beh, lì ho avuto un colpo di fortuna, perché c’era questa ciminiera che era il segno della presenza di una classe operaia. Mi sono detto: trasformiamola in una spirale di luce… e il campanile era fatto. Sa che cosa significa fare un campanile oggi? Io non sarei stato capace. I campanili si facevano quando le case erano basse, ma in quel quartiere ci sono palazzi di quattordici o quindici piani. Non avrebbe avuto senso fare il campaniletto…
Altro esempio. Lei nella chiesa del monte Tamaro ha collaborato con un pittore come Enzo Cucchi. Che rapporto ci può essere, oggi, tra architettura e iconografia?
Il problema dell’iconografia è che sente di più il trauma delle avanguardie. Per cui quando il cardinal Poletto alla fine dei lavori della chiesa del Santo Volto mi ha detto: “Io ho bisogno di un’immagine, la gente chiede un’immagine”, io gli ho risposto: “Facciamo venire un artista ? Dio me ne liberi. Dica lei, eminenza, quale artista”. Allora abbiamo ripiegato sull’immagine della Sindone, reinventandone un muro, che ha una sua magia, e con l’intuizione che io ho avuto di trasformare in pixel il volto della Sindone. L’operazione lì è riuscita, ma so di non aver risposto fino in fondo alla domanda di Poletto sull’iconografia.
Cosa funzionò, invece, al Tamaro?
Lì ci furono una serie di circostanze che giocarono a favore. La prima fu che Enzo Cucchi voleva ad ogni costo lavorare con me. Ma molte occasioni che si erano presentate in precedenza non erano quelle giuste. Come quella volta che Giovanni Agnelli chiese di fare una cappella a Sankt Moritz con il suo gallerista Bruno Bischofberger… beh, in quel caso siamo stati capaci di dire di no. Poi si è presentata l’occasione del Monte Tamaro, e finita la chiesa chiesi a Cucchi di venire a vedere. Gli dissi: “Questo intradosso fammelo tu”. E lui inventò degli alberi. Per l’abside, invece, lui all’inizio pensava a una Veronica, a un volto. Mentre io avevo visto ad ArtBasel delle mani che lui aveva disegnato, e che mi avevano colpito. Le mani: segno della preghiera, le mani per ricevere, per dare… E gli ho chiesto: “Perché non mi fai queste mani?”. Lui è rimasto un po’ spiazzato, stava già lavorando sui bozzetti del volto, ma poi in una notte ha fatto tutto.
Un’esperienza irripetibile?
Io per la chiesa di Sambuceto ho pensato a Velasco Vitali, e lui sarebbe anche d’accordo. Però, ci siamo detti, ne parliamo quando lo spazio è costruito. A dire il vero, quando sono stato giù l’ultima volta mi è venuta un po’ di paura: le dimensioni sono quelle della Cappella Sistina, e non vorrei neanche buttare allo sbaraglio un artista. Un altro artista che mi è venuto in mente è Ettore Spalletti: è di Pescara, e mons. Forte mi ha detto che gliene avrebbe parlato. Però resta aperto il quesito di base sull’iconografia: deve nascere dalla chiesa. Il caso del Tamaro è emblematico.
Anche la committenza ha una grande responsabilità in quel che si costruisce…
La committenza è centrale. La maggior parte delle chiese che sono state costruite sono delle cose veramente oscene. Il peggio dell’architettura del XX secolo è quella ecclesiale. E questo perché non c’è una committenza all’altezza.
A Milano negli anni 60 con il cardinal Montini sono state costruite moltissime chiese, alcune progettate da grandi archietetti. Cosa resta di quella stagione?
Conosco quella stagione perché conosco don Peppino Arosio, che era il coordinatore di quel progetto. Lui ha fatto quel che poteva. Una chiave di lettura potrebbe essere questa: le tante chiese che sono state realizzate sono lo specchio dello sviluppo di Milano: ce n’è qualcuna onesta ma ce ne sono di molto brutte.
Quali sono le migliori, secondo lei?
Secondo me il buon architetto non ha mai fatto una cattiva chiesa. Sono i geometri i pasticcioni: fanno il pastiche, scelgono la bizzarria invece del rigore. Le chiese disegnate da Gio Ponti sono quelle che secondo me, ancora oggi, rispondono in modo migliore. Le peggiori sono quelle delle periferie, dove invece di dare il progetto a un buon architetto lo hanno dato – dicono ora una cosa dura – al buon fedele. Anche se era un cattivissimo architetto. È questo il grande equivoco, anche della committenza.
Sta dicendo che i buoni cristiani sono cattivi architetti?
No, dico che non si può valutare l’architettura unicamente secondo il parametro della fede. Io credo che la chiesa deve essere il top, il meglio dell’architettura. E invece…
Però c’è l’esempio della Sagrada Familia…
Un’eccezione, un unicum irripetibile. Innanzitutto perché Gaudì è forse il più grande creativo del XX secolo. E poi perché era un uomo di una straordinaria fede. Ma dove trovi oggi questa magia che fa sì che anche senza di te un edificio possa essere compiuto? Impossibile. Poi ci sono tanti difetti nella Sagrada Familia, certo. Ma comunque resta un caso straordinario, impossibile pensare nella cultura del moderno di ripetere un’avventura così.


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