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Sostenibilità sociale e ambientale

Quando il green è solo facciata

Molte multinazionali fanno quello che è chiamato greenwashing

di Lorenzo Alvaro

Il greenwashing non è una moda degli ultimi anni. Il termine fu coniato dall’ambientalista newyorkese Jay Westerveld nel 1986 per definire la pratica diffusa in alcune catene di Hotel di incentivare, al motto di “save the environment” il riuso degli asciugamani, pratica che sì faceva indubbiamente risparmiare detersivi ed elettricità al pianeta ma soprattutto faceva incrementare il profitto degli hotel diminuendo considerevolmente una voce di spesa. Da allora sono molti i casi eclatanti di grandi multinazionali sorprese a “lavarsi” col verde. Per esempio la società petrolifera Bp, responsabile nell’estate scorsa nel Golfo del Messico del disastro ambientale determinato dalla fuoriuscita di greggio da una sua piattaforma, solo qualche mese prima aveva investito 200 milioni di euro per una campagna di greenwashing, cambiando i colori delle insegne e presentandosi come un gruppo socialmente responsabile e amico dell’ambiente.

Qualche anno fa in Inghilterra l’Authority ha multato la Shell colpevole di uno spot che dichiarava che l’estrazione di petrolio dalle sabbie bituminose del Canada era sostenibile, nonostante le emissioni dovute all’estrazione e alla raffinazione siano fino a dieci volte superiori a quelle tradizionali del greggio.

Nel mirino di 235 Ong e gruppi ambientalisti, tra cui Friends of the Earth, Greenpeace, Food and water Europe, Via Campesina, sono finite nei mesi scorsi un gruppo di multinazionali dell’agro business tra cui Unilever per aver collocato sul mercato 218mila tonnellate di soia transgenica della brasiliana Maggi, dichiarandola e certificandola come “soia responsabile”. Le associazioni hanno lanciato un appello ai consumatori europei e nordamericani a non lasciarsi ingannare da queste etichette manipolate dalla grande industria nei supermercati.

Unilever è stata a lungo nel mirino di Greenpeace per l’utilizzo dell’olio di palma la cui produzione metteva a rischio le foreste pliviali dell’Indonesia. Una campagna, che ha costretto la multinazionale a sospendere le forniture. Altra multinazionale molto attiva nel presentare il proprio volto “verde” è l’Ikea. E proprio per le sue iniziative in campo ecologico il giornalista Fred Pearce del Guardian, particolarmente attivo contro il greenwashing, qualche anno fa ha sottolineato che «Ikea non può costruirsi una reputazione verde con un fai da te flatpak manuale».

Altra multinazionale bersagliata dagli ambientalisti per pratiche di greenwashing è la Nestlè. Negli anni scorsi un gruppo di associazioni ha presentato un ricorso alle autorità canadesi per violazione del Codice di Advertising Standards in relazione alla pubblicità che magnificava le caratteristiche della bottiglia utilizzata. La Nestlè assicurava che ‘«l’acqua imbottigliata è il prodotto più sano di consumo più rispettoso dell’ambiente al mondo» e che «Nestlè Pure Life è una scelta sana, rispettosa dell’ambiente». Affermazioni «fuorvianti e false» per gli ambientalisti.

Particolarmente attiva nel denunciare il comportamento poco green delle multinazionali è Greenpeace. A turno sono finite nel mirino dell’associazione Carrefour, Gucci, Kimberly Clark, Kraft, Unilever ma anche Nestlè, Mattel, Lego, Nike e Adidas. Proprio in questi giorni l’associazione ambientalista sta rivolgendo la propria attenzione ad alcuni marchi sportivi che hanno sedi produttive in Cina, denunciando il problema dell’inquinamento dei fiumi cinesi causato dagli scarichi tossici.

Da alcune ricerche, infatti, è emerso il legame commerciale fra i proprietari di due complessi industriali cinesi del tessile (lo Youngor Textile Complex e il Well Dyeing Factory Limited) di cui è stato esaminato l’impatto degli scarichi nei fiumi e marche sportive nazionali e internazionali, tra cui Abercrombie & Fitch, Adidas, Bauer Hockey, Calvin Klein, Converse, Cortefiel, H&m, Lacoste, Li Ning, Meters/bonwe, Nike, Phillips-Van Heusen Corporation (PVH Corp), Puma e Youngor.

Le aziende cinesi e internazionali connesse agli impianti produttivi dove Greenpeace ha effettuato i campionamenti hanno differenti approcci verso la sostenibilità ambientale e la responsabilità sociale. L’associazione, infatti, segnala che alcune aziende, come Li Ning, Bauer Hockey, Abercrombie & Fitch e Youngor pubblicano poco o nulla del loro impegno su temi ambientali e/o sociali contrariamente a quanto avviene per Nike, Adidas, Puma, H&m e Phillips-Van Heusen. Queste multinazionali, invece, leader nella sostenibilità come le definisce il Dow Jones Sustainability Index, per Greenpeace non si preoccupano affatto di come vengono realizzati i loro prodotti a livello locale, anche se questo dovesse comportare il rilascio in acqua di sostanze pericolose da parte dei fornitori.

Anche se la Cina non ha ancora adottato una legislazione idonea a gestire l’uso e il rilascio di composti pericolosi nell’ambiente, secondo Greenpeace le multinazionali che acquistano prodotti cinesi hanno l’obbligo di assumersi la responsabilità degli scarichi tossici rilasciati localmente per produrli. La campagna è partita da qualche giorno e l’associazione riferisce di avere già avviato un dialogo con i brand coinvolti.

Recentemente anche note aziende di giocattoli stanno avendo un ‘bel’ dal fare. Le analisi delle fibre della carta utilizzata per il packaging delle più importanti marche di giocattoli, ossia Mattel, Disney, Hasbro e Lego, commissionate da Greenpeace, sembrano dimostrare il legame che esiste tra questi marchi globali di giocattoli e Asia Pulp and Paper (App), la più grande e nota azienda produttrice di polpa di cellulosa e carta in Indonesia.

La denucia è partita un mese fa ma qualcosa inizia già a muoversi. La Lego, infatti, ha annunciato formalmente di aver interrotto i propri rapporti commerciali con App e tutte le aziende ad essa legate. A seguito delle denunce e campagna di sensibilizzazione di Greenpeace, colossi multinazionali come Kraft, Nestlè, Unilever, Carrefour, Tesco, Auchan, LeClerc, Corporate Express e Adidas hanno cancellato i propri contratti di fornitura con App.


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