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Sostenibilità sociale e ambientale

Sugli scaffali italiani è boom: «Ma il modello Usa non ci convince»

Parola ai maggiori player della grande distribuzione

di Redazione

A forza di “fare la spesa giusta” (dal titolo della manifestazione che Fairtrade organizza ormai da diversi anni), i consumatori italiani hanno imparato così bene cosa sia il commercio equo e solidale, come funzioni e di quali esigenze si faccia carico, che se ne ricordano anche quando vanno al supermercato. Dove trovano, grazie al sostegno di molti attori della grande distribuzione, caffè arabico, cacao, banane sudamericane, zucchero di canna, rose kenyote e molti altri prodotti giunti in Italia senza passare dalle forche caudine dello sfruttamento umano o ambientale. Operatori cooperativi come Coop e Conad, ma anche realtà anche molto differenziate come Auchan, Esselunga, Carrefour, Lidl, Crai, NaturaSì, da anni propongono nei loro scaffali prodotti certificati Fairtrade, talvolta etichettati con una loro private label (cioè un marchio originale). Un’offerta che sta del resto arricchendosi sempre più e che è disponibile persino in alcuni discount. Anche la grande distribuzione insomma dà una grossa mano ai produttori del Sud del mondo: anche per merito della gdo il 41% delle banane biologiche vendute in Italia è certificato Fairtrade, percentuale che per lo zucchero di canna si attesta al 14%.
«Dal 2003 a oggi», spiega Valdimiro Adelmi, bran manager SolidalCoop, «il nostro brand ha triplicato il volume d’affari. Va precisato che molti sono i cosiddetti prodotti d’impulso: non sviluppano fatturati rilevanti e tuttavia raggiungono quota 21 milioni di euro». Mentre Coop ha scelto di proporre una ventina di prodotti alimentari e circa 30 manufatti (fra cui palloni realizzati in Pakistan e camicie realizzate in India, tramite una partnership con un ordine missionario), Conad ha preferito concentrarsi sul food. «Abbiamo pochi prodotti», premette Giuseppe Zuliani, responsabile Marketing, «che tre anni fa abbiamo fatto confluire in un unico private label, “Conad il biologico”, perché ci sembrava irrazionale creare un altro marchio». Con quei “pochi” prodotti, tuttavia, Conad realizza circa 10 milioni di fatturato. «Parliamo comunque di una nicchia che va decisamente molto bene: il biologico, all’interno del quale sono i prodotti equo-solidali, è cresciuto di circa il 50% nell’ultimo anno». Nel mercato si trovano comunque prodotti che vanno al di là dell’alimentare e dell’artigianato. NaturaSì, ad esempio, propone anche prodotti per la bellezza e la casa, fra cui detersivi ecologici certificati da acquistare alla spina (in modo da inquinare meno con nuovi contenitori). Né mancano esperienze di collaborazione che valorizzano, oltre che la solidarietà per Paesi lontani, il rispetto dell’ambiente a noi prossimo: lo scorso anno sono state vendute 380mila borse in cotone certificato Fairtrade, grazie all’iniziativa di alcuni distributori come Lidl, Conad e Ikea che le hanno adottate come borse riutilizzabili per la spesa.
In ogni caso di tratta ancora di un segmento di nicchia, come conferma Fairtrade Report 2010: l’Italia è uno dei Paesi in cui il consumo pro capite dei prodotti equosolidali è più basso, attestandosi a una media di 2,3 dollari l’anno per persona, ex aequo con il Giappone (al contrario Svizzera, Norvegia e Lussemburgo si collocano in cima alla classifica).
Spazio per crescere ci sarebbe eccome, quindi. Eppure non pare che la gdo italiana sia particolarmente interessata a una soluzione alla Fair Trade Usa. Alcuni, come Esselunga, preferiscono non entrare in una questione che riguarda, prima che la gdo, Fairtrade e le sue componenti. Altri invece ? è il caso di Adelmi ? ribadiscono che «l’importante è continuare a sostenere i piccoli produttori, che sono l’anello più debole» Aabbiamo interesse che il mercato cresca», prosegue il responsabile Coop, «ma senza traumi e soprattutto senza correre il rischio di inserire nel processo delle tossine provenienti dal mercato tradizionale». Un timore che condivide anche Corrado Menozzi, responsabile delle attività sociali e ambientali Crai, secondo il quale «è possibile una banalizzazione che potrebbe portare alla perdita della distintività di questo segmento». «Si potrebbero forse aumentare i volumi», aggiunge Menozzi, «ma questo potrebbe danneggiare l’equilibrio del sistema Fairtrade. Del resto, non siamo nemmeno certi della risposta dei consumatori, il cui atteggiamento nei confronti dell’equosolidale è in genere improntato a una certa fedeltà». Insomma, la gdo italiana boccia il gioco immaginato da Fair Trade Usa. «Con una spolveratina di equosolidale», sintetizza Zuliani, «non è che tutto diventa “più”. Capisco l’esigenza di puntare su grandi volumi, ma almeno ci sia un concetto di prevalenza: da questo punto di vista, rispetto alla logica di breve periodo degli americani, l’equilibrio attuale mi sembra decisamente più sostenibile».


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