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Cooperazione & Relazioni internazionali

Il fallimento dell’Onu

Presentato il 50° Rapporto di Amnesty International

di Redazione

Per Amnesty International negli ultimi dodici mesi il coraggio che hanno mostrato le persone che hanno preso parte alle manifestazioni del 2011 si è accompagnato al fallimento delle leadership che ha reso il Consiglio di sicurezza dell’Onu (in foto il segretario generale Ban Ki-Moon)  un organismo debole e sempre più inadeguato ai suoi obiettivi. È questo in estrema sintesi quanto emerge dal 50° Rapporto annuale di Amnesty international che in occasione della sua presentazione ha rilanciato la richiesta di un forte Trattato globale sul commercio di armi entro l’anno.

«Il fallimento delle leadership è diventato globale nel 2011, anno in cui i dirigenti politici hanno risposto alle proteste con brutalità o indifferenza. I governi devono dimostrare di possedere una leadership legittima e combattere l’ingiustizia, proteggendo chi è senza potere e limitando l’azione di coloro che il potere ce l’hanno. E’ giunto il momento di mettere le persone prima delle aziende e i diritti prima dei profitti»,  ha dichiarato Christine Weise, presidente di Amnesty International Italia, nel presentare a Roma l’edizione italiana del Rapporto annuale 2012, pubblicata da Fandango Libri.

L’entusiastico sostegno ai movimenti di protesta mostrato da molti poteri globali e regionali nei primi mesi del 2011 non si è trasformato in azione. Mentre l’Egitto va ad eleggere un nuovo presidente, sembra sempre di più che le opportunità di cambiamento create dai manifestanti stiano andando perse.
«Nel corso dell’ultimo anno è stato troppo spesso evidente come le alleanze opportunistiche e gli interessi finanziari avessero il sopravvento sui diritti umani, mentre le potenze globali si spintonavano per esercitare influenza in Medio Oriente e in Africa del Nord. Il linguaggio dei diritti umani è stato adottato quando funzionale all’agenda delle imprese o della politica e messo da parte quando non è parso opportuno o quando ha ostacolato il profitto», ha proseguito Weise.

Amnesty sottolinea come la mancata azione sullo Sri Lanka e sui crimini contro l’umanità in Siria, uno dei principali acquirenti di armi dalla Russia, abbia reso il Consiglio di sicurezza un organismo superfluo come guardiano della pace globale. Le potenze emergenti di India, Brasile e Sudafrica sono state troppo spesso complici, con il loro silenzio.
«Ci sono chiari ed evidenti motivi per deferire la situazione della Siria alla Corte penale internazionale, affinché indaghi sui crimini contro l’umanità. La determinazione di alcuni stati membri del Consiglio di sicurezza nel proteggere la Siria a qualunque costo allontana l’accertamento delle responsabilità per tali crimini e costituisce un tradimento nei confronti della popolazione siriana», rimarca Weise.

Il Rapporto annuale 2012 documenta restrizioni alla libertà d’espressione in almeno 91 paesi e, in almeno 101 paesi, casi di maltrattamenti e torture soprattutto nei confronti di persone che avevano preso parte a manifestazioni.
«Spodestare singoli leader, per quanto tiranni, non è sufficiente a produrre un cambiamento duraturo. I governi devono rispettare la libertà d’espressione nei loro paesi e all’estero, prendere sul serio le loro responsabilità internazionali e investire in sistemi e strutture che garantiscano giustizia, libertà e uguaglianza di fronte alla legge», aggiunge Weise.

La cartina di tornasole per i politici sarà la conferenza delle Nazioni Unite per trovare un accordo per un Trattato sul commercio di armi, da qui si potrà capire se vorranno o meno porre i diritti umani sopra gli interessi egoistici e i profitti.
Senza un forte trattato, il ruolo del Consiglio di sicurezza come guardiano della pace globale sembra destinato al fallimento; i suoi membri permanenti mantengono un potere assoluto di veto su ogni risoluzione, nonostante siano i principali fornitori mondiali di armi, osserva ancora l’organizzazione per i diritti umani.  

La presidente di Amnesty International Italia ha concluso osservando come «Le persone scese in strada per manifestare nel 2011 hanno mostrato che il cambiamento è possibile. Hanno gettato il guanto della sfida ai governi, chiedendo loro di stare dalla parte della giustizia, dell’uguaglianza e della dignità. Hanno fatto vedere che i leader che non rispondono a quelle aspettative non saranno ulteriormente accettati. Dopo un inizio nefasto, il 2012 deve essere l’anno dell’azione»

Nel corso della presentazione del Rapporto annuale, è toccato a Carlotta Sami, direttrice generale di Amnesty International Italia descrivere ulteriori sviluppi nella situazione dei diritti umani del 2011.

Ecco i punti messi in evidenza:

Stati fortemente repressivi come la Cina hanno scatenato i loro apparati di sicurezza per soffocare le proteste. L’orribile situazione dei diritti umani in Corea del Nord non è migliorata;

nell’Africa Subsahariana, in Medio Oriente e in Africa del Nord ci sono state rivolte massicce, accompagnate dall’uso eccessivo della forza contro i manifestanti in paesi quali Angola, Senegal e Uganda;

la protesta sociale ha preso forza nelle Americhe, portando spesso le persone a scontrarsi con potenti interessi economici e politici. Attivisti sono stati minacciati e uccisi in paesi quali Brasile, Colombia e Messico;

l’attivismo della società civile è cresciuto in Russia, dove si sono viste le più grandi manifestazioni dai tempi del collasso dell’Unione Sovietica; esponenti dell’opposizione hanno subito violazioni dei diritti umani e sono stati ridotti al silenzio;

non c’è stato alcun significativo cambiamento in paesi come Turkmenistan e Uzbekistan. Il paese che quest’anno ospita il concorso musicale Eurovision, l’Azerbaigian, ha soppresso la libertà d’espressione e 16 prigionieri di coscienza sono ancora in carcere per aver rivolto critiche al governo nel 2011;

la violenza ha contraddistinto il periodo successivo al voto per l’indipendenza del Sud Sudan, ma il Consiglio di sicurezza dell’Onu, insieme al Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana, ha mancato nuovamente di far sentire parole di condanna, come nel caso dei bombardamenti indiscriminati dell’aviazione del Sudan o della chiusura, da parte del governo sudanese, agli aiuti delle organizzazioni umanitarie;

in Medio Oriente e in Africa del Nord, mentre le rivolte attiravano l’attenzione mondiale, si acuivano problemi molto radicati. In Iran, il governo, sempre più isolato, non ha tollerato alcuna forma di dissenso e ha usato la pena di morte in forma massiccia, superato solo dalla Cina, mentre in Arabia Saudita la repressione si è abbattuta sui manifestanti. Israele ha portato avanti il blocco di Gaza, prolungandone la crisi umanitaria, e ha continuato a espandere gli insediamenti illegali nella Cisgiordania. Le organizzazioni politiche palestinesi Fatah e Hamas hanno preso di mira gli opposti sostenitori e le forze israeliane e i gruppi armati palestinesi di Gaza si sono attaccati colpo su colpo;

il governo di Myanmar ha preso la storica decisione di liberare oltre 300 prigionieri politici e di consentire ad Aung San Suu Kyi di candidarsi alle elezioni. L’escalation delle violazioni dei diritti umani collegate al conflitto nelle zone dove vivono le minoranze etniche, nonché i continui arresti e intimidazioni contro gli attivisti, suggeriscono tuttavia che le riforme in corso hanno portata limitata;

le tendenze dello scorso anno comprendono anche le violazioni dei diritti umani ai danni delle comunità native delle Americhe, collegate all’aumentato sfruttamento delle risorse; il peggioramento della discriminazione in Africa a causa dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere; la crescente retorica xenofoba da parte di alcuni esponenti politici in Europa; l’accresciuta vulnerabilità agli atti di terrorismo da parte dei gruppi armati islamisti in Africa;

tra i progressi, vanno invece segnalati i passi avanti verso l’abolizione della pena di morte, la scalfittura dell’impunità per i crimini del passato nelle Americhe e gli sviluppi fondamentali verso la giustizia in Europa, con l’arresto del generale serbo Ratko Mladic e del serbo-croato Goran Hadžic, sotto processo per i crimini commessi nelle guerre degli anni Novanta nell’ex Jugoslavia.


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