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Cooperazione & Relazioni internazionali

La Big Society? Non l’ha capita nemmeno Cameron

Intervista al guru inglese che interverrà al Festival della Persona di Arezzo: «Il Governo di Londra la sta applicando in maniera ridotta»

di Cristina Barbetta

Affidare alla collettività la gestione dei servizi pubblici, togliendo potere allo stato. Phillip Blond, 46 anni, di Liverpool, è il teorico della Big Society, perno del programma elettorale del premier britannico David Cameron. Fondatore e direttore del think tank Respublica, prima di scegliere la politica Blond è stato docente universitario di filosofia e teologia. L'abbiamo incontrato in occasione del Festival della Persona di Confartigianato che si svolgerà ad Arezzo 27-29 settembre, dove Blond interverrà portando la riflessione sul rapporto tra welfare e sviluppo.

 
Se ne parla così spesso, da averne perso quasi le radici: da dove nasce il concetto di Big Society?
È una teoria che nasce per dare una risposta – critica – ai problemi che la Gran Bretagna sta attraversando in questi anni. Come risolverli? A fronte delle teorie che vedono nello Stato il "risolutore totale", il soggetto cui è demandata completamente la "gestione" della società, mi sono reso conto che in realtà lo Stato è un fattore di divisione, delle persone le une dalle altre e delle persone dal contesto sociale. Nel contempo, anche il mercato stava andando verso una forma totalizzante, che soffocava la libera imprenditorialità, e proprio nel nome di libero mercato si creavano cartelli un controllo monopolistico del nostro sistema economico. La Big Society nasce come reazione critica a queste tendenze. Le basi teoriche di questo pensiero sono variegate, e vanno da Ruskin a Carlyle, Chesterton, Adam Smith, ma ho attinto anche dai pensatori sociali cattolici,  così come da Hayek e dalla scuola austriaca. 
 
La Big Society, accolta con entusiasmo agli inizi, è stata poi oggetto di molte critiche. Quali sono le principali difficoltà che questa politica ha incontrato? 
La diffusione dell'idea di Big Society è coincisa con la crisi economica globale e con l'avvio di politiche di austerity da parte di numerosi governi occidentali. Così questa idea di società si è vista stretta tra due fuochi, attaccata dalla sinistra, che sostiene sia una scusa per deresponsabilizzare lo Stato, e dalla destra, che la taccia di socialismo. Penso che lo stesso governo britannico non abbia compreso appieno l'idea Big Society, e l'ha assimilata in versione ridotta. Anche la comunicazione di questa politica è stata a mio avviso terribile. Tuttavia, sul piano concreto, alcune delle leggi che in Gran Bretagna hanno dato attuazione a questa visione sono le più progressiste e le più avanzate al mondo, e sono sicuro che si diffonderanno anche al di fuori dei confini del mio Paese: penso al Localism Bill, al Big Society Capital, e alle normative introdotte per andare incontro alle esigenze delle imprese cooperative. 
 
Il non profit è un fruitore o uno strumento per la realizzazione della Big Society? 
Il mondo del non profit è lo stakeholder fondamentale della Big Society.
 
Che ruolo possono giocare le altre parti? Sindacati, associazioni e confederazioni professionali…?
Il ruolo che tutte le parti coinvolte nella costruzione sociale, quali esse siano, è riconoscere e creare l’interesse comune, che è la precondizione per il rinnovamento sociale, e anche economico. Guardiamo all'Italia: le "organizzazioni ombrello" italiane fanno sì che le piccole e medie imprese possano lavorare assieme; queste ultime sono i terminali più vicini alle esigenze dei propri clienti, e quindi possono coinvolgerli più facilmente ed essere più sensibili alle loro attese e necessità. Penso che il futuro della Big Society starà nel riconoscere questi meccanismi virtuosi. La forza di aree geografiche come per esempio la Lombardia sta proprio in questo, che qui le piccole e medie imprese hanno un forte radicamento nelle comunità, cosa che le aiuta a creare le condizioni per realizzare i loro bisogni e crescere. 
 
Alcuni osservatori italiani sostengono che in realtà la teoria della Big Society debba molto all'Italia… 
Il lavoro di alcuni studiosi italiani, in particolare di economisti contemporanei come Stefano Zamagni, mi ha certamente influenzato,  ma  ho imparato molto anche dall’Austria, dalla Germania,  dalla Francia e ancor più dall’Inghilterra. Insomma, noi europei dobbiamo imparare a riconoscere che abbiamo una storia un’eredità – anche di pensiero – comune, quindi penso che nessuno possa reclamare di avere l’esclusiva dell’”invenzione” della Big Society.
 
La Big Society riconosce la capacità ad organizzazioni comunitarie di appropriarsi e gestire proprietà e beni per finalità di interesse collettivo (i cosiddetti "community assets"). Come valuta  questo processo?
Uno dei grandi pericoli dell’epoca attuale è che sebbene ci sia il libero mercato, in realtà i cittadini vengano privati di risorse e opportunità, e così crescono l’ineguaglianza e l’immobilità sociale. Il vecchio approccio liberale e il vecchio approccio al welfare sono entrambi associati a questo impoverimento di massa. Dobbiamo abbandonare un modello di Stato in cui poche persone hanno tantissimi diritti ma non restituiscono nulla, così come un modello di mercato che porta benefici solo a un numero ristretto di persone. Se non facciamo questo passo, possiamo dire addio alla crescita.
 
Il primo Rapporto sulla cooperazione in Italia mostra che, nel periodo 2007-2011, l’occupazione creata dalle imprese cooperative italiane è cresciuta dell’8%, mentre nello stesso periodo il livello di occupazione nelle imprese è diminuito del 2.3%. Come spiega  questi dati?
Le formule cooperative rappresentano uno dei "vantaggi competitivi" del ventunesimo  secolo. Tutti pensano che siano un istituto del passato, ma in realtà sono il nostro futuro. Le cooperative, così come le imprese sociali, sono davvero parte della soluzione del problema creato dal capitalismo del XX secolo, che ha promesso prosperità di massa ma in realtà ha portato povertà di massa. Ciò che mi interessa è creare un capitalismo che funzioni davvero. Non tutto può né dovrebbe essere una cooperativa, ma sviluppare le formule cooperative è l'impegno per un futuro in cui tutti vorremmo vivere. 

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