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La differenza fra benessere e felicità individuale

L'intervista di Luigino Bruni all'economista indiano premio Nobel nel 1998

di Luigino Bruni

Professor Sen, lei ha una sua posizione originale riguardo gli studi sulla felicità. In generale sembra essere critico nei confronti del modo con cui oggi economisti e sociologi misurano la felicità. È così?
«Sì e no. Se per felicità, o meglio happiness, poiché il significato della parola inglese non è esattamente quello dell’italiana “felicità”, intendiamo quanto il pensiero utilitarista di J. Bentham evidenziava con questa espressione, allora non posso che essere critico, come tutta la mia critica all’utilitarismo di questi decenni dice. Ma dobbiamo intenderci su cosa intendiamo con happiness, e che posto occupa nella vita delle persone».
 
E come cambia?
«Non ci sono dubbi sul fatto che la felicità sia qualcosa di grande da ottenere. Ma non è la sola cosa per la quale abbiamo ragioni per attribuirle valore. Il problema allora si pone quando costruiamo una teoria etica, come fanno gli utilitaristi (Bentham in particolare), basata soltanto sulla felicità, misurata come differenza tra i piaceri e le pene, una prospettiva, questa, che sta avendo un grande revival in questi ultimi anni. Questa visione ristretta del benessere basato sulla felicità (happiness) è molto problematica e pericolosa quando la usiamo per confronti tra diverse condizioni di deprivazione e miseria delle persone. In effetti, le valutazioni della propria felicità sono soggette a effetti di adattamento, poiché le persone si adattano a circostanze anche molto sfavorevoli, pur di sopravvivere. Ma la capacità di adattamento delle persone può portare a trarre conclusioni, anche di politiche sociali ed economiche, sbagliate».
 
 
Questo tema, noto come “lo schiavo felice”, è una delle costanti del pensiero di Amartya Sen sulla felicità. Andrebbe stampato e affisso alle pareti di ogni istituzione e organizzazione che si occupa di sviluppo umano o di lotta alla indigenza. Così scriveva l’economista nativo del Bengala, nel 1993: «Si prenda in considerazione una persona molto svantaggiata che sia povera, sfruttata, di cui si abusi lavorativamente e che sia malata, ma che le condizioni sociali hanno reso soddisfatta della propria sorte (per mezzo ad esempio della religione, della propaganda politica o dell’atmosfera culturale dominante). Possiamo forse credere che se la cavi bene perché è felice e soddisfatta?».
Mi sembra una critica molto importante e totalmente condivisibile. La coautrice di Sen, la filosofa Martha Nussbaum, dice che esistono delle “buone pene” e “cattivi piaceri”, come le buone sofferenze legate alle lotte per la conquista dei diritti per sé e per gli altri, o i cattivi piaceri di chi cerca nell’abusare di altre persone. Quindi il semplice criterio di massimizzare i piaceri e minimizzare le pene non dice nulla, o troppo poco, sulla qualità della vita di una comunità o società.
 
 
Il lavoro con altri economisti (Stiglitz e Fitoussi) per l’ individuazione di nuovi indicatori di benessere, che superino il Pil, si basa sulla impossibilità di affidarsi alla sola misurazione della felicità soggettiva?
«È proprio così. Infatti ho molti dubbi che la felicità individuale sia un buon indicatore del benessere (well-being) delle persone. Come detto, la metrica utilitaria basata esclusivamente sulla felicità può essere molto ingiusta nei confronti di coloro che sono sistematicamente deprivati. Ad esempio, per coloro che si trovano agli ultimi posti delle nostre società stratificate, minoranze oppresse in comunità intolleranti, e cioè i disoccupati e i precari che vivono in un mondo con grandi incertezze, lavoratori sfruttati in contesti industriali, o casalinghe sottomesse in culture sessiste. Certo, grazie alla loro capacità di adeguarsi alle condizioni di vita, riescono a sopravvivere, ma questi adattamenti distorcono le valutazioni soggettive della felicità di queste persone. Nella valutazione delle condizioni di vita e di benessere delle persone più povere della società, gli indicatori di felicità ci dicono molto meno di altri indicatori sulle condizioni oggettive di deprivazione e mancanza di libertà. Essere riconciliati e contenti con i propri svantaggi, è cosa ben diversa dal non avere questi svantaggi».
 
Per lei, professor Sen, in linea con Aristotele e tutta la tradizione classica dell’etica delle virtù, la “vita buona” si misura dunque sulla base di quanto la gente “fa e può fare”, non in base a che cosa “sente”. Come a dire che le moderne democrazie hanno bisogno di più indicatori di benessere (incluso il Pil), poiché qualunque riduzione ad un solo indicatore, compreso un indicatore di felicità, mette sempre in pericolo la democrazia e la libertà.
«Sì, credo che anche gli indicatori basati sulla felicità siano molto problematici, perché fanno commettere errori gravi a danno delle persone più svantaggiate della società. E come ho avuto modo di scrivere nel mio ultimo libro, L’idea di giustizia: “Non c’è bisogno di essere Gandhy (o Martin Luther King o Nelson Mandela o Aung San Suu Kyi) per comprendere che gli obiettivi e le priorità di una persona possono andare ben al di là degli angusti confini del ben-essere e della felicità individuale”».
 
Vorrei chiudere con la frase di Dante con cui ha aperto la sua conferenza all’Auditorium della musica di Roma alla presenza di oltre 700 persone (quelli che hanno trovato i biglietti): «O gente umana, per volar su nata, perché a poco vento così cadi?» (Purgatorio, XII).
«In effetti, la domanda di Dante è molto importante. È grande il contrasto tra le grandi cose che gli esseri umani possono raggiungere, e le esistenze così povere e limitate che molti uomini e donne finiscono per vivere. Le potenzialità degli esseri umani – di condurre una vita buona, di essere contenti e felici, di essere liberi – sono molto maggiori di quanto riusciamo, concretamente a realizzare».
 
 
Se il compito dell’economista, almeno di quelli come Sen, fosse quello di studiare per contribuire a ridurre gli ostacoli oggettivi e soggettivi che ci  impediscono di esprimere al meglio le nostre potenzialità, allora fare l’economista sarebbe un buon mestiere.
 
Articolo tratto da: Città Nuova n.3/2013
 


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