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Caracas, la metropoli orfana del suo Chavez

Una grande metropoli di oltre sei milioni di abitanti. Che vive lo choc della morte del pressidente, amato e odiato, che in questi decenni ne ha comunque trasformato il volto e le ambizioni

di Paolo Manzo

Si respira un’aria strana di questi tempi a Caracas. Non solo l’aria mefitica causata dal traffico infernale. C’è anche quella vagamente inquieta di una metropoli che avverte di essere rimasta senza il suo timoniere. O senza il suo comandante, come i supporter più fanatici chiamavano Hugo Rafael Chávez Frías. È così dalll’11 dicembre quando il presdiente venzuelano, ha dovuto sottostare per la quarta volta in un anno e mezzo a un’operazione chirurgica a Cuba, a causa del cancro che lo ha aggredito. Ma proprio guardando ai barrios che circondano il centro italiano si capisce perché il populismo di Chávez abbia stravinto per 15 anni. Con lui, infatti, per la prima volta i poveri hanno avuto una voce. Quegli stessi poveri che negli anni ’80 si nutrivano di “perrarina”, ovvero la carne per cani, con la benedizione dell’élite bianca che ne elogiava addirittura le proprietà nutritive in ampi reportage pubblicati sui più importanti settimanali economici.

Caracas, insomma, con i suoi 6 milioni di abitanti, appare sempre più come una città tentacolare, con scenari sociali e architettonici che cambiano repentinamente da un quartiere all’altro. E soprattutto è violenta, anzi violentissima con il record  mondiale di omicidi, 140 ogni 100mila abitanti, oltre 50 al giorno. Una strage di molto superiore a qualsiasi Afghanistan o Iraq. Nella capitale del “Socialismo del XXI secolo” in alcuni quartieri il coprifuoco scatta con l’imbrunire e nei barrios per muoversi da una calle all’altra ci si telefona col cellulare per sapere se la strada è libera dalle gang di ragazzini armati. Eppure la città continua ad attrarre come una calamita. Negli ultimi anni, ad esempio, è stata la volta dei colombiani. Sono oltre 4 milioni a vivere oggi in Venezuela. Sono i desplazados, i rifugiati per motivi economici e politici dovuti al conflitto tra la guerriglia delle Farc e i vari governi succedutisi negli ultimi decenni in Colombia. Nella capitale venezuelana, la roccaforte dei “colombiani” è la parroquia del 23 de Enero, un quartiere di periferia da cui Chávez fece partire il tentativo di colpo di stato del 4 febbraio 1992. «Siamo due paesi diversi ma il sentimento è lo stesso» ricorda Julio Cesar Cartalya, un ex guerrigliero, «quanto a me militavo nell’unità tattica di combattimento che era incaricata della logistica, delle armi, dei soldi, dei vestiti e del cibo per la guerriglia che combatteva nella selva».  Questa pagina di storia che unì venezuelani e colombiani non è stata dimenticata tanto che nel 2008 nel quartiere è stata persino inaugurata una piazza dedicata a Manuel Marulanda, il fondatore delle Farc.  

Quello della casa resta, infatti, il grande problema della capitale venezuelana tanto che uno dei punti di successo elettorale di Chávez è stato il programma “Mi vivienda mi casa” che ha distribuito migliaia di nuovi alloggi popolari per i più poveri. «Tutti qui sognano di avere una casa», spiega Washington, di professione cameriere, «ma non tutti ce l’hanno. Quando il sogno si realizzerà forse davvero Caracas riuscirà fino in fondo ad essere una società migliore». Suo figlio Juanito intanto gioca a calcio nel campetto sottostante la loro casa, nella favela di Petaré. Ha aderito con slancio al progetto “A Goal for Caracas” che offre una scuola di calcio gratuita ai bambini più poveri. Sport ma anche musica classica, grazie a “El Sistema” inventato nel 1975 dal maestro José Antonio Abreu, una straordinaria figura di economista e musicista insieme, forte della convinzione che proprio Mozart e Beethoven erano la cura migliore per sottrarre i bambini alla violenza dei barrios. Soprattutto in un Paese di 30 milioni di abitanti con il 30% di popolazione sotto i 14 anni. Oggi questo modello musicale che unisce orchestre e cori di giovanissimi venezuelani, finanziato al 100% da Chávez che lo ha messo alle dirette dipendenze del ministero della Famiglia, sport e salute, oggi si è moltiplicato un po’ ovunque. Il metodo Abreu prevede un immediato approccio con lo strumento e una struttura didattica piramidale: i ragazzi più grandi insegnano ai più piccoli. Anche se, come Abreu sottolinea sempre, non è tanto il metodo che conta, quando la convinzione che la musica sia un bene per la società. Al mattino grandi bus gialli entrano nei quartieri miserabili, portano i bambini nelle scuole e li riportano solo la sera. Nel progetto sono coinvolti anche ragazzini disabili. Come i piccoli sordomuti del coro “Manos Blancas” che eseguono la musica con il movimento delle mani. In Venezuela dove i centri di formazione musicale de “El Sistema” sono quasi 400, e una ventina nel mondo. Senza contare che tra gli allievi di Abreu, usciti dalla miseria grazie alla musica classica, ci sono anche nomi prestigiosi come quello di Gustavo Dudamel, 31enne direttore dell’orchestra sinfonica di Göteborg, della Los Angeles Philarmonic e in lizza per dirigere la filarmonica di Berlino. Ma c’è pure Christian Vasquez, che a 28 anni è stato chiamato alla Stavanger Symphony Orchestra, o Diego Matheuz che a 27 anni è salito sul podio della Fenice di Venezia. “Suonare e lottare” è il motto di Abreu. «Suonare perché è il modo migliore per rendere bella la vita. E lottare per rimuovere tutti gli ostacoli che si presentano davanti. Vorrei che questi bambini crescessero come artisti e come combattenti sociali». Il futuro di Caracas dipenderà da loro…
 


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