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Cooperazione & Relazioni internazionali

Perché i giornali hanno bisogno di inviati

Susan Dabbous, la freelance rapita in Siria lo scorso aprile, interviene sulle parole di Domenico Quirico, il giornalista della Stampa entrato nel Paese in conflitto e di cui non si hanno più notizie

di Mattia Schieppati

«Domenico Quirico, nell’intervista che vita.it ha ripubblicato (leggila qui), dice una frase molto vera, e forte: “comunicare”, dice, è “andare lì e condividere”». Susan Dabbous, una dei quattro giornalisti trattenuti in Siria per dieci giorni lo scorso aprile, interviene sul silenzio angoscioso che continua a circondare la sorte dell’inviato de La Stampa che, entrato in Siria a inizi aprile, dal 9 non dà più notizia di sé.
Dabbous non entra nel merito della vicenda di Quirico – lo stesso direttore de La Stampa, Calabresi, aveva chiesto il silenzio – ma dà il suo punto di vista su quello che è, oggi, il giornalismo sul campo, degli inviati nelle zone di guerra in particolare.
«Purtroppo oggi il mondo dell’informazione, i giornali e i broadcaster, preferiscono la quantità alla qualità. Quasi nessuna testata investe più nel “mandare qualcuno lì e condividere”, ma si lascia tanto se non tutto all’improvvisazione dei freelance. Che producono quantità e magari, qualche volta, pure qualità, ma non è questo che sembra contare. E le parole che dice Quirico nell’intervista che avete riportato sono terribilmente vere. Dette da un grande giornalista che costituisce ormai quasi un’eccezionalità: un inviato di una testata che ancora investe sul mestiere di inviato, e permette di tenere aperta una finestra su alcune aree di crisi del mondo».

D. Fare l’inviato, insomma, ha ancora un senso?
R. «Assolutamente. Perché noi, i lettori, oggi siamo in balìa di un’orgia di immagini e di informazioni di cui ignoriamo la fonte, i contesti, immagini che non sappiamo più filtrare, cui non sappiamo più dare senso. Il lavoro dell’inviato è proprio questo, essere lì, dare una testimonianza di quello che accade, ma anche scavare e proporre una chiave di lettura dei fatti.

D. Tu come ti sei ritrovata a fare questo mestiere?
R. Io ho iniziato ad “agire” come inviato, prima ancora di ragionare sul cosa vuol dire fare l’inviato. Ho sempre lavorato per piccole testate, dove non c’era certo la cultura – né la possibilità economica – di avere un inviato. Però per me è stata una cosa naturale, andare a Lampedusa per raccontare gli sbarchi dei migranti, andare a Modena per raccontare il terremoto. E ho maturato strada facendo le caratteristiche che servono per fare questo mestiere: mantenere sangue freddo, saper lavorare in situazioni di grande stress, trovarsi a scrivere un pezzo sull’iPhone arroccata su un balcone mentre sotto sparano…

D. Quirico parla di “creare compassione”. Che peso devono – o possono – avere le emozioni nel raccontare situazioni di crisi?
R. Io non sono impermeabile alle emozioni, anzi, quando ti trovi lì c’è il rischio opposto: quello di dare troppo spazio all’emozione del momento. Ma il nostro ruolo è un altro, è andare a cercare informazioni, notizie, scavare al di là di quel che si vede e, magari anzi di sicuro, ti emoziona. In questo senso parlo di freddezza. Il giornalista non deve fare narrazione, scrivere un racconto, ma deve testimoniare la realtà. O, quanto meno, avvicinarcisi.

D. Tornerai in Siria?
R. La Siria rimane uno dei due Paesi della mia vita, insieme all’Italia, e di sicuro ci tornerò. Non a breve, credo, perché devo ancora un po’ assorbire tutto quello che mi è successo


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