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Politica & Istituzioni

Cosa c’è dopo l’ultimo partito

Alla vigilia dell'Assemblea nazionale di sabato 11, su Vita mensile quattro pagine di approfondimento sulle ragioni che stanno portando all'implosione l'ultima forza politica a definisrsi ancora "partito"

di Riccardo Bonacina e Stefano Arduini

Forse, dovremo rassegnarci a che la forma verbale del sostantivo “partito”, un participio passato, indichi anche la presa d’atto di un tempo in sé conchiuso? Forse sì, stando alla drammatica crisi dell’ultima formazione politica che porta il sostantivo nella sua insegna nonostante la sua giovane età, il Partito democratico nato meno di 6 anni fa, il 14 ottobre 2007. Nella direzione nazionale seguita al disastro del Pd nelle elezioni del Quirinale, quando in pochi giorni è riuscito a killerare il suo passato, il suo presente e il suo futuro, bocciando Marini e Prodi (due padri fondatori) e affidandosi infine a un ultraottuagenario come Napolitano, il segretario dimissionario del Partito Bersani, ha detto: «Insieme a difetti di anarchismo e di feudalizzazione si è palesato un problema grave di perdita di autonomia. Non si pensi che quanto successo sia episodio, c'è qualcosa di strutturale».

Già, ma qual è il problema strutturale? È possibile chiamarlo per nome? Davvero, come vorrebbe Grillo, siamo tutti vittime di un sillogismo terribile nella sua chiarezza logica senza scampo: la democrazia contemporanea (quella fondata sulle Costituzioni del secondo dopoguerra) è fondata sui partiti politici; i partiti politici stanno morendo; dunque, la democrazia sta morendo. Ma è proprio vero questo sillogismo? Siamo davvero condannati alla morte dei partiti e, con loro, della democrazia?  Basta, per dirla ancora con Bersani nella drammatica direzione Pd dello scorso 23 aprile, occorre ritrovare “un principio d’ordine”? Si è chiesto l’ormai ex segretario: 'Vogliamo un soggetto politico o uno spazio politico? Un campo, un terreno di gioco, un autobus, un ascensore per illuminare le individualità?". Riflettere intorno alle sorti del Pd, oggi, è certamente riflettere intorno alle sorti della democrazia rappresentativa e al futuro della democrazia in questo nostro Paese perché il tema riguarda tutte le formazioni politiche anche quelle che si sono rifatte il trucco con cambiamenti solo nominalistici.

Soggetto politico e spazio politico? Il dilemma di Bersani
«Il principio d’ordine  è necessario ma non sufficiente», dice Luigi Bobba, deputato Pd alla seconda legislatura ed ex presidente delle Acli e portavoce del Forum del Terzo settore; «Necessario per evitare una pericolosa tendenza centrifuga e il potpourri delle opinioni, ma non sufficiente perché in un partito plurale come è il Pd e non identitario, ci vogliono elementi di cultura condivisi se no si rischia di diventare etero diretti come abbiamo già visto in queste settimane».
È tranchant Massimo Cacciari, da anni coscienza critica dei democrat italiani: «Quella del Pd non è stata neppure una fusione a freddo come in tanti dicono per spiegare la sua crisi, perché non c’è stata nessuna fusione. I suoi dirigenti poi non si sono formati in una rinnovata lotta sociale e politica, ma nella burocrazia dei due partiti di provenienza. Il risultato è stato una classe politica culturalmente insufficiente in cui forse l’unico a distinguersi capacità di immaginarsi un futuro è Renzi. E gli altri non stanno meglio, anzi. Che ne sarà del Pdl dopo Berlusconi? O Scelta civica dopo Monti? Continueranno un po’ a gestire ciò che resta di un pezzo di potere ma poi?»

Per Lorenzo Guerini ex sindaco di Lodi edeputato renziano Pd alla prima legislatura: « Il Partito democratico non è imploso, quella che è saltata è un’idea di Pd. L’idea che è stata alla base dell’elezione di Pierluigi Bersani alla segreteria. Quella che – per dirla proprio con una battuta di Bersani – vede in testa alle priorità la «difesa della ditta». Una posizione culturale che nasce nella concezione identitaria del vecchio Partito comunista, che parlava solo ai propri militanti e aveva come unico punto di riferimento la sua stessa tradizione.
Questo modello è andato in crisi, perché è uno schema, come abbiamo visto in modo eclatante in questi ultimi due mesi, che non riesce a mantenere aperto il dialogo con la base, ma nemmeno è in grado di consentire una reale discussione fra i gruppi dirigenti su punti davvero condivisi riducendosi, al massimo, alla condivisione di tattiche che mai riusciranno a tenere insieme un soggetto politico. Il principio d’ordine evocato da Bersani dopo il caso “Gherardo Colombo” (ndr. L’ex magistrato che ha chiesto di entrare nel Pd per stracciare la tessera), mi sta anche bene, ma solo dopo una reale e franca discussione interna. Cosa che, malgrado quanto sia emerso all’esterno, nelle nostre fila non c’è mai stata».

Da dove può ripartire il Pd?
Se le analisi convergono su un punto: non siamo più nell’era dei partiti identitari ma dei partiti plurali e la soggettività politica non la dà né la condivisione di tattiche più o meno giuste né la “difesa della ditta” e degli apparati burocratici o di piccoli recinti di potere personale destinati a sgonfiarsi e a sparire, si può indicare un punto di ripartenza per il Pd, e più in generale per la forma partito?
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