Education & Scuola

La lezione di Bologna: una sussidiarietà senza pasticci

Solo il 28% dei bolognesi ha votato al referendum sui finanziamenti alle scuole dell'infanzia paritarie. Per Stefano Zamagni con questi numeri il referendum è «politicamente irrilevante, ma dice basta a soluzioni pasticciate»

di Sara De Carli

L’esito vero del referendum di Bologna sul finanziamento pubblico alle scuole dell’infanzia paritarie, è che «nessuno può cantare vittoria». Stefano Zamagni era in prima linea per l’opzione B e per settimane ha girato palmo a palmo la città, in una miriade di incontri. I numeri sono noti: circa 50mila persone hanno votato A, cioè per eliminare il finanziamento del Comune alle scuole dell’infanzia paritarie (ad oggi ammonta a circa 1 milione di euro l’anno), circa 35mila hanno votato B, per il mantenimento della convenzione. Stanti i numeri, percentuali sono queste: la A ha incassato il 59% dei voti, la B si è fermata al 41%. Il fatto però è che il referendum costato oltre mezzo milione di euro è stato un vero flop: a votare sono andati solo il 28% dei bolognesi. Il giorno dopo, ecco la analisi dei fatti del professor Zamagni.

Domanda secca, professore: come è andata?
Nessuno può cantare vittoria. I sostenitori della A perché non hanno raggiunto la massa critica, che è un concetto che si usa nella teoria sociale e indica la soglia sopra la quale un fenomeno diventa significativo. Nel nostro caso, su 290mila cittadini che avevano diritto a votare, la soglia critica era di 100mila, grossomodo un terzo. Il primo dato quindi è che i voti per la A sono la metà della soglia del politicamente rilevante. Questo referendum consultivo sarà quindi politicamente irrilevante, è evidente, non potrà avere effetti politici, perché a chi provasse a usare i numeri come una “vittoria” sarebbe facilissimo replicare immediatamente “siete due gatti”. Hanno schierato nomi importanti, a cominciare da Stefano Rodotà, e hanno mosso 50mila persone.

Un ragionamento analogo non vale anche per il fronte del B? Anche voi avete mobilitato grandi nomi, battuto il territorio palmo a palmo e il risultato sono numeri ancora più piccoli…
Pure noi non possiamo dire di aver vinto, è vero. Noi però non abbiamo mai detto di aver dietro le masse: io ho fatto moltissimi incontri, avevo il polso della situazione, avevo detto che se fossimo riusciti a portare a votare 40/45mila persone sarebbe stato un successo e non ci siamo andati tanto lontani. Il grande sconfitto è il PD bolognese, che ha 20mila tesserati, che evidentemente non sono andati a votare. Noi non abbiamo perso perché abbiamo meno voti, quella è una lettura banale. Noi non abbiamo vinto perché abbiamo lasciato a casa il 72% dei bolognesi, non siamo riusciti a portare ai seggi la stragrande maggioranza dei cittadini.

Perché?
La risposta è che quel 50% – al 72% togliamo pure il 25% che a votare non va mai – sono coloro i quali non sono contenti dell’attuale meccanismo di finanziamento. Sono antistatalisti e quindi non potevano votare l’opzione A ma allo stesso tempo vorrebbero che il finanziamento andasse  direttamente ai cittadini, attraverso i voucher, e non passasse attraverso le scuole. Questo è il punto, che c’è insoddisfazione per un sistema pasticciato, all’italiana. Il referendum ci insegna che la sussidiarietà si può volere o non volere, ma se la si vuole la si deve prendere sul serio, attuandola fino in fondo, non con soluzioni pasticciate: io lo dico da almeno dieci anni, il finanziamento deve andare non ai soggetti di offerta ma ai soggetti di domanda. In questo senso il referendum potrebbe essere rilevante se desse una spinta in questa direzione, se si decidesse, a questo punto, di cambiare.

 


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