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Economia & Impresa sociale 

Crowdfunding, quei paletti di troppo per le start-up

L'obbligo di far sottoscrivere una quota pari - almeno - al 5% degli strumenti finanziari offerti ad investitori professionali è in contrasto con il concetto stesso di crowd. E poi perchè limitare l'acesso solo alle start-up innovative? Il parere del nostro esperto Roberto Randazzo

di Redazione

L'Italia è il primo paese europeo a dotarsi di una normativa volta a disciplinare il crowdfunding equity based, un’innovazione senz’altro di grande interesse che tuttavia merita qualche riflessione più approfondita.
Facciamo un passo indietro.  Con la conversione in legge del D.L. 179/2012 è stata introdotta la possibilità, per le start-up innovative, di raccogliere capitali di rischio attraverso portali on-line.

Per dare attuazione a quanto previsto dall’articolo 30 del decreto, occorreva però un apposito regolamento, che Consob ha recentemente pubblicato.  Cosa prevede il regolamento?  Innanzi tutto stabilisce i requisiti di cui devono essere in possesso i  gestori dei portali (iscritti in un apposito registro tenuto da Consob) e gli obblighi connessi a tale attività, fra i quali quello di rendere disponibili agli investitori, in maniera dettagliata, tutte le informazioni riguardanti l'offerta affinché gli stessi possano comprendere la natura dell'investimento, il tipo di strumenti finanziari offerti dalle start-up (le quote o le azioni rappresentative del capitale sociale) e i rischi ad essi connessi.

Il gestore, una volta raccolti gli ordini di acquisto, dovrà trasmetterli ad un intermediario finanziario autorizzato ed al fine di semplificare la procedura ed agevolare la realizzazione degli investimenti sono state introdotte delle soglie (per le persone fisiche 500 euro per singolo investimento e 1.000 euro annui, per le persone giuridiche di 5.000 euro per investimento e 10.000 euro annui) al di sotto delle quali non verrà applicata la direttiva Mifid. Quanto agli strumenti di tutela è, inoltre, opportuno sottolineare come gli investitori – eccezion fatta per quelli professionali – abbiano la possibilità di esercitare il diritto di recesso entro 7 giorni dall’invio dell’ordine e di vendere le proprie partecipazioni, qualora cambi il controllo della società.

Il passaggio che ha suscitato numerose critiche è rappresentato, invece, dall’obbligo far sottoscrivere una quota pari – almeno – al 5% degli strumenti finanziari offerti ad investitori professionali, fra i quali sono  ricompresi anche fondazioni bancarie ed incubatori certificati di start – up innovative. Pur comprendendo lo spirito di tale previsione, è evidente che ciò potrebbe stridere con il concetto stesso di “crowd”, considerato che costringe le imprese a rivolgersi al mercato degli investitori “tradizionali”, senza l’intervento dei quali il finanziamento della “folla” non potrebbe perfezionarsi.

Al di là delle singole disposizioni contenute nel regolamento, la principale perplessità è legata al fatto che è stata introdotta una forma di finanziamento con delle enormi potenzialità che, tuttavia, può essere utilizzata solo dalle start- up innovative (ad oggi sono circa 1.000). Forse, si sarebbe potuta sfruttare questa occasione per affrontare il tema del crowdfunding nella sua totalità allargando eventualmente anche la platea delle imprese “beneficiarie”; è vero che non si può normare tutto ma l’attività di raccolta fondi tramite piattaforme on line (ad oggi in Italia sono 39) – nelle sue diverse declinazioni (non solo equity, ma anche lending, donation, reward) – presenta degli aspetti poco chiari che spesso generano delle incertezze di cui prima o poi occorrerà occuparsi, considerata la rilevanza che sta assumendo il fenomeno. Insomma, un piccolo passo per il crowdfunding, un grande salto per le start-up innovative.
 


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