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Economia & Impresa sociale 

La scure del Comune di Milano sui Centri Diurni

Silvio Tursi, direttore della Cooperativa Tempo per l’Infanzia (quartiere di via Padova) lancia l'allarme: «I ragazzi che ospitiamo hanno bisogno del nostro lavoro, non si può fare la spending review sulla loro pelle»

di Francesco Mattana

Il primo segnale d'allarme è arrivato il 14 maggio scorso al Forum del Terzo Settore: nell’occasione, l’assessore Pierfrancesco Majorino ha ventilato l’ipotesi di taglio alle politiche sociali. Nel mese di giugno, la minaccia si è fatta più concreta: il Comune di Milano ha annunciato ufficialmente un ridimensionamento dei Centri Diurni per i Minori e dei servizi di Assistenza a Domicilio. Gli operatori hanno risposto con un presidio, tenutosi il 27 giugno presso Largo Treves davanti al Settore Servizi sociali. Segue una parziale retromarcia del Comune: revoca dei tagli e la possibilità di tenere aperti i Centri Diurni 4/5 giorni a settimana. Ci saranno però ulteriori valutazioni sui singoli casi e questa garanzia dovrebbe durare fino a fine Dicembre. Dopodiché, buio fitto. 
In attesa che venga reso pubblico il Bilancio di previsione, a sollecitare il settore a tenere alta l'attenzione è Silvio Tursi, direttore di  Tempo per l’infanzia (Centro Diurno per minori e Centro di Aggregazione Giovanile) che opera nel quartiere "difficile" di via Padova. 
 
Tursi, che futuro si prospetta per la vostra Cooperativa,come per le altre realtà che operano nel territorio milanese?
«L'assessore continua a dichiararsi disponibile al dialogo, ma per il momento di concreto non abbiamo visto nulla. Abbiamo dimezzato il fatturato del Comune, che ora ammonta a 80.000 euro. Di conseguenza abbiamo dovuto ridurre l’orario degli educatori e il sabato non siamo più aperti. Tutto questo è fortemente penalizzante nei confronti dei ragazzi che ospitiamo, sono loro i primi a risentirne. Non discutiamo le scelte del Comune. Però rivolgiamo questa domanda, molto chiara: quanto credete al nostro progetto? Perché possono anche pensare che il Centro non serva più, ma abbiano il coraggio di dirlo apertamente. Nel frattempo, confrontandomi con altri colleghi nel settore, è emerso un 40% in meno di risorse per i Centri Diurni». 
 
Cosa rende diverso Tempo per l’Infanzia rispetto ad altre esperienze consimili?
«Supportiamo sia il ragazzino che la sua  famiglia d'origine; col nostro appoggio possono rimanere nella propria casa. In questo modo, l'ente pubblico trae molti vantaggi economici: un Centro Diurno costa molto meno di quanto possa costare la permanenza nelle comunità».
 
In vent'anni, quali problemi avete dovuto fronteggiare?
«Sono le politiche pubbliche, i tagli, a darci maggiore sconforto. Con queste limitazioni hai le mani legate, riesci a incidere meno dal punto di vista educativo».
 
Qualche aneddoto in particolare, che testimonia la difficoltà del vostro operare in questi anni?
«Mi viene in mente una donna nigeriana arrivata in Italia senza permesso di soggiorno. Con una situazione familiare complicatissima da gestire, lasciava i figlioletti di due e quattro anni a casa da soli. Abbiamo supportato questi bambini dalla II elementare alla III media: non avevano un modello educativo, glielo abbiamo trasmesso noi». 
 
Avendo a che fare ogni giorno con ragazzini dalle biografie tormentate, vi è mai capitato di subire reazioni violente?
«Alcuni hanno reagito in maniera molto aggressiva nei nostri confronti. Tutto ciò che possiamo fare noi è cercare di contenere la rabbia. Laddove è possibile (perché purtroppo non sempre è possibile) si porta avanti un progetto individualizzato coi ragazzi».
 
Che età hanno gli ospiti del Centro?
«Coprono una fascia anagrafica tra gli 11 e i 18 anni. I ragazzi dai 16 ai 18 vengono qui perché hanno bisogno di una mano per lo studio, oppure perché fuori non trovano niente di stimolante».
 
La storia di Tempo per l'infanzia è fatta anche di sfide non vinte?
«Se il ragazzino viene tutti i giorni per noi è un successo. Il problema sorge quando non viene, significa che c'è qualcosa che non riusciamo a trasmettere, non viene attirato dal nostro progetto».
 
Per quale motivo scelgono di non venire?
«Spesso hanno situazioni familiari particolarmente difficili con cui convivere. Poi ci sono quei casi in cui davvero non possiamo fare nulla per loro, perché avrebbero piuttosto bisogno di un ausilio terapeutico».
 
A quale metodo pedagogico vi affidate in prevalenza?
«Ci rifacciamo molto alle idee di Jerome Bruner, che si concentrava sull'autobiografia di un individuo: attraverso la  parola di un nostro ragazzo possiamo poi capire qual è il modello educativo migliore per seguirlo. Crediamo nell'importanza della resistenza da parte di chi deve essere educato: il ragazzino deve imporsi, deve reagire. I più pericolosi sono quelli che fanno tutto quello che gli dici di fare».
 
A livello ricreativo quali strade percorrerete?
«Senz’altro continuerà la proficua collaborazione col Teatro degli Incontri di Gigi Gherzi, che è nata con lo scopo di includere nei nostri progetti un numero sempre maggiore di persone. Bisogna solo capire quante risorse metterà a disposizione l'ente pubblico».
 
Come si manifesta il fascino di questo quartiere?
«Nella semplicità e nell'umiltà di chi lo abita. È un quartiere di persone generose, che non se la tirano».
 
La paura è un sentimento frequente in queste strade?
Devo dire che negli ultimi anni la paura è uno stato d'animo molto meno presente. E questo è accaduto semplicemente perché la  politica e i mezzi d'informazione stanno diffondendo un'immagine meno terrorizzante  del quartiere.
 
E il fenomeno del razzismo, indiscutibilmente presente nella zona di via Padova?
«Si verifica un fenomeno molto curioso: i nostri ragazzi diventano razzisti una volta messo il muso fuori dal nostro centro, mentre qui dentro fanno tranquillamente amicizia col bambino marocchino. Questa sorta di 'schizofrenia' avviene per colpa dei familiari. Il papà di un nostro ragazzo non voleva che il figlio giocasse a un torneo di calcio con bambini dei campi Rom. Quest'uomo non capiva l'origine del malessere di suo figlio: non capiva che il figlio desiderava soltanto fare amicizia coi bimbi di altra etnia».
 
Cosa è rimasto del Silvio Tursi cresciuto nell'Albania italiana, entroterra calabro in cui si parla l' arbëreshë? 
«È rimasto il desiderio di fare qualcosa di concreto per gli altri. Anche da insegnante, i primi tempi che stavo a Milano, la preoccupazione principale era che  le unità didattiche fossero improntate su un aspetto educativo, per poi arrivare a trasmettere dei contenuti. Un educatore deve avere in mente una società ideale, deve pensare globalmente».
 


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