Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Media, Arte, Cultura

Manuel De Sica: «Vittorio salvò alcuni ebrei, ma non era Schindler»

Quarant’anni dopo la sua scomparsa, un’intervista per raccontare virtù e debolezze del grande Vittorio. Uomo di grande generosità, ma anche giocatore d’azzardo incontrollabile. Eppure, dice il figlio, forse avrebbe firmato il Manifesto No slot di Vita

di Redazione

Vittorio De Sica ci ha lasciato quarant’anni fa.  Per raccontare nella maniera migliore un artista che è rimasto nel cuore di milioni di persone ci voleva un bel libro, come quello scritto dal figlio Manuel –compositore di riconosciuto talento, che di recente ha raccolto in un cd il meglio della sua musica. Di figlio in padre descrive il Maestro del Neorealismo con sincerità, soffermandosi sugli aspetti più positivi  ma anche su alcune sue zone d’ombra, come ad esempio il demone del gioco d’azzardo. La generosità, la sensibilità verso i più deboli e il desiderio di vivere in un mondo in cui “buongiorno vuol dire davvero buongiorno”: queste erano le sue qualità principali. Ebbe modo di dimostrarle anche durante l’occupazione nazista di Roma. Girava un film, La porta del cielo, all’interno dell’Abbazia di San Paolo:  scritturò come comparse molti ebrei e perseguitati, proprio allo scopo di tenerli protetti in un luogo sicuro. Questo suo gesto -Manuel ci tiene a precisarlo- non fu eroico: semplicemente Vittorio aveva un animo buono, e riteneva giusto fare qualcosa per salvare delle vite umane. Nell’intervista che segue abbiamo discusso di questo e di altri aspetti.

 

Nel ’94 avete dato vita all’Associazione amici di Vittorio De Sica, allo scopo di ricordare la figura di tuo padre e restaurare alcuni suoi capolavori. Quali iniziative avete in cantiere?

«In questo momento io ho l’intenzione di cedere tutti i miei materiali alla Cineteca di Bologna, penso che –come già hanno dimostrato in tante occasioni- loro siano in grado di fare una grande opera di conservazione e di restaurazione».

L’impressione è che il Neorealismo, come fenomeno culturale, sia stato apprezzato più all’estero che in Italia.

«Senza dubbio, qui in Italia non ha mai avuto degli apprezzamenti sufficienti. Poi il genere si è evoluto –o involuto, a seconda dei punti di vista- con la commedia all’italiana».

Senza contare poi la disapprovazione dei politici. Andreotti nei primi anni Cinquanta espresse un forte disappunto verso il Neorealismo, disse che era meglio “lavare i panni sporchi in casa”.

 «Andreotti aveva recitato una farsa per far contento De Gasperi. Quando poi incontrò mio padre nel 1960 gli disse proprio che aveva dovuto dirlo, ma in realtà lui amava il Neorealismo. E aggiunse: “Sarebbe stato meglio sussurrargliele in un orecchio quelle cose”. Come dire: molto rumore per nulla».

Tuo fratello Christian dice che secondo lui Umbero D è il più bel film di tutti i tempi. Condividi?

«Umberto D era sicuramente il più favorito di mio padre. Io invece sono un grande sostenitore, in assoluto, di Ladri di biciclette. Per me Ladri di biciclette è una qualcosa di sconfinato, valica addirittura i confini della cinematografia, è un saggio antropologico e molte altre cose. Ed è giustamente quello universalmente più riconosciuto».

Politicamente tuo padre era un uomo libero, sapeva valutare coi propri occhi senza intermediazioni. Proviamo a immaginare cosa avrebbe pensato, ad esempio, di Berlusconi…

«Guarda, Berlusconi lo avrebbe visto al massimo come possibile interprete di un Carosello, giusto quello. Lo avrebbe detestato, perché lui detestava tutti i ricconi, gli arroganti, i ricchi, i capitalisti.

Di Renzi invece?

«Lo avrebbe osservato con un minimo di sospetto. Riconoscendogli un indubbio carisma e una grande comunicativa, però nel contempo intravedendo in lui una certa furbizia naturale».

Dal punto di vista religioso, come si collocava?

«Lui era timorato come un uomo di fine Ottocento, perché era nato nel 1901. Lo mettevano un po’ in soggezione le figure tradizionali –commissario, brigadiere, cardinale- semplicemente perché era un figlio del suo tempo. Certamente vedeva con simpatia Giovanni XXIII, e il tentativo da parte sua di rinnovare la Chiesa col Concilio Vaticano II. Papa Francesco gli sarebbe piaciuto molto: avrebbe apprezzato l’immediatezza, la prontezza, la comunicativa semplice ma profonda. Poi il fatto che da un lato è un uomo accomodante, che stringe le mani e telefona alla gente comune; dall’altro però è rigoroso, non vuole avere a che fare coi religiosi furbetti».

Christian parla di vostro padre come un piccolo Oskar Schindler, perché salvò la vita a molti ebrei durante l’occupazione nazista. È tutto vero?

«È vero che mio padre ha salvato molte vite, ma non c’è stata una De Sica list, come quella di Schindler. Ci sono stati anche degli ebrei tra le persone che ha reclutato come comparse, per permettere loro di scampare ai rastrellamenti, però mio padre non è stato né Oskar Schindler né Perlasca. Ha dato una mano a diverse categorie che in quel momento erano in pericolo, ma non fu una scelta cosciente, ragionata. Mio padre era sicuramente un uomo di grande umanità, di grande generosità –mia sorella mi racconta che una volta lo vide in piazza del Popolo mentre dava il suo cappotto a un senzatetto infreddolito- quindi era una persona molto sensibile, che comprendeva e cercava di aiutare le persone sofferenti. Quindi diciamo, molto semplicemente, che le contingenze storiche lo spinsero a dare una mano. Questa è la verità, e io voglio che di mio padre emerga la verità, non la versione romanzata».

Come mai Cesare Zavattini si lamentava di non essere abbastanza apprezzato da tuo padre?

«Era una sua nevrosi. Una forma di gelosia malcelata. Si era convinto che mio padre lo sottovalutasse, ma non era vero per niente: parlava benissimo di lui a tutti, gli voleva molto bene e lo stimava».

Vittorio era conosciuto anche come giocatore d’azzardo. Però, come tutti i geni, era anche un uomo pieno di contraddizioni. Stai a vedere che forse avrebbe firmato il Manifesto No Slot di Vita?

«Può darsi. Magari lo avrebbe firmato per curarsi le sue ferite, col senno del poi. Però io ho sempre cercato di giustificare la sua tendenza al gioco d’azzardo: credo si trattasse veramente di una via d’uscita da un qualcosa che lo angosciava, nel profondo».

Con Christian siete fratelli, e avete anche un rapporto molto fraterno. Hai sempre condiviso le sue scelte artistiche?

«Io amo molto il Christian De Sica cantante, come attore di prosa sinceramente non mi ha mai convinto. Quando canta invece lo vedo più nel ruolo che gli appartiene. Forse un po’ tardivamente ha deciso di darsi agli spettacoli musicali, ed è un peccato:  credo che in Italia non ci sia un crooner abile come lui a attrarre il pubblico a teatro. Poi più in generale la passione per la musica ci unisce molto. Dai tempi in cui, da bambini, nostro padre ci faceva cantare delle canzoncine nelle serate in casa. Allora erano imbarazzanti per noi quelle performance, oggi le ricordiamo con affetto». 


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA