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Giaccardi: la bellezza e i rischi del donare

L’intervento di Chiara Giaccardi, sociologa e docente presso l'Università Cattolica di Milano alla convocazione civica #InMovimento lanciata da Riccardo Bonacina al Teatro Elfo il 21 marzo scorso

di Chiara Giaccardi

Dono è una parola bellissima, che ha a che fare con il dare, con la gratuità, la sovrabbondanza e dunque con la vita. Ma il rischio è che si crei una retorica anche un po’ stucchevole del dono, che alla fine ne neutralizza la straordinaria potenzialità di fare nuove le cose, di immettere la vita nel mondo attraverso il “di più” dell’eccedenza che esprime.

Vorrei dunque offrire una riflessione che possa fare da antidoto alla sterilizzazione del dono attraverso la retorica, e all’utilizzo ideologico di questo luogo di grandezza dell’umano.
Ideologico perché fa finta di non vedere che anche nel dono c’è un trucco, un rischio, un veleno. Il dono può diventare il cavallo di troia del ricatto emotivo, il gancio per la costruzione di una lealtà che poi arriva a voler ingabbiare la libertà dell’altro, il cemento di un patto non detto che getta un’ipoteca sulla relazione.

Può anche essere lo specchio per un io narcisistico, che ama contemplare gli effetti della propria magnanimità e non si cura se gli altri ne restano umiliati.
Per evitarlo, tre antidoti:

Consapevolezza del debito e umiltà del dono
Il primo è il fatto che chi dona non lo faccia perché “ha tanto da dare ed è generoso”, o perché il dono è nobile, ma perché sa di essere a sua volta in debito. Noi prima di tutto esistiamo perché siamo stati donati, abbiamo ricevuto la vita. «Bisogna essere poveri per apprezzare la gioia di donare» (George Eliot, Middlemarch, 1874). Tutti, penso, lo abbiamo sperimentato: i poveri sono molto più generosi dei ricchi nel dare. Chi sa di essere povero è il primo a essere grato per il fatto di trovare qualcosa da offrire. Come l’obolo della vedova. Che è comunque sempre insufficiente, mai risolutivo, una goccia nel mare.
Solo se chi dona sa di essere a sua volta in debito il dono perde il suo lato utilitaristico, che è sempre in agguato: «Il dono di uno stolto non ti gioverà, perché i suoi occhi bramano ricevere più di quanto ha dato? Egli darà poco, ma rinfaccerà molto; aprirà la sua bocca come un banditore. Oggi darà un prestito e domani richiederà; uomo odioso è costui», Siracide, 20, 14-15.
 Il dono non è dunque mai solo il “mio” dono, ma è sempre un con-dono. Posso donare perché ho ricevuto; nel mio dono c’è ciò che io possiedo grazie a ciò che altri mi hanno donato. Per questo posso a mia volta donare con larghezza e libertà. Donare non è elargire, ma entrare in relazione. Siamo capaci di donare se siamo capaci di ricevere. Il dono, soprattutto quello inaspettato, bisogna saperlo accogliere: Goethe usava dire che nella vita viaggia felice chi viaggia con due borse, una per dare, l’altra per ricevere. Se non sappiamo ricevere non possiamo dare. Se non abbiamo una borsa vuota siamo troppo pieni di noi stessi e il nostro dono sarà sempre un po’ avvelenato.

Relazionalità allargata del dono e sbilanciamento verso il non ritorno
Il dono non è un laccio solo se esce dal circuito io-tu e si apre a una gratitudine allargata, che libera tutti dal ricatto del controdono. Dono perché ho ricevuto, e dono ad altri che a loro volta doneranno ad altri. Che non ridoneranno a me. È libero, e generativo, un dono che esce dall’aspettativa del contraccambio. Arturo Paoli, in una meditazione che si trova anche in rete (luogo pieno di doni!) usa una metafora preziosa per comprendere questo movimento: l’immagine della fontana. L’acqua della fonte rinfresca, rallegra e dà vita solo se scorre. Il dono dell’acqua lo accogliamo veramente se la facciamo circolare, non se la riportiamo alla fonte.  Se l’acqua torna indietro diventa stagnante e marcisce. Morta e tossica anziché viva e generativa.
Dono veramente se non mi aspetto un ritorno per me, ma spero in una ricaduta che metta un circolo eccedenza, a beneficio di altri, che non conosco.

Il perdono come paradigma del dono
Per questa rinuncia al tornaconto la forma più alta, il vero paradigma del dono è il perdono.
Che è per-dono. Un dono che viene offerto proprio là dove l’altro non solo non è promessa di restituzione, ma ha anzi anticipato un’offesa, una ferita, un male che ci colpisce a sangue, a volte a morte. «Senza perdonare e essere perdonati non si può vivere» (Panikkar). Il perdono è la forma più alta di dono, perché la più disinteressata e faticosa. Chi perdona rinuncia a vendetta, orgoglio, persino giustizia e riesce ad amare chi gli ha fatto del male, quindi il nemico. È il bene che vince il male, che dà all’altro una possibilità di rinascita, che rinnova anche noi, al di là della nostra stessa speranza, in questo movimento controistintivo e antiprotettivo.
Un movimento che non è frutto di un calcolo, ma di cui ci stupiamo persino di essere capaci.  Soltanto se siamo disposti a perdere tutto possiamo ricevere, inaspettatamente, in cambio. Perché, secondo la verità paradossale che caratterizza l’umano, e come recita un proverbio indiano più volte richiamato da Gandhi e da altri dopo di lui, “all that is not given is lost”. Chi vuol salvare e trattenere perderà, chi è disposto a perdere salverà. Lasciar andare è il movimento della vita. Solo se sappiamo donare siamo vivi e generativi.


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