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Manghi: «All’Olimpico le istituzioni sono state perfette»

A parlare è il sociologo, docente all'Università degli Studi di Parma, e grande appassionato di calcio Sergio Manghi che come tanti ha seguito la finale di Coppa Italia e gli scontri che l'hanno preceduta. «Se ci si scandalizza troppo, tutti i giorni, non si capisce più per cosa valga la pena scandalizzarsi»

di Lorenzo Alvaro

I fatti e le polemiche che hanno investito la finale di Coppa Italia giocata all'Olimpico di Roma tra Napoli e Fiorentina domenica sera sono note a tutti. Tanti i commenti e le dichiarazioni. Da Saviano che tira in ballo, naturalmente, la Camorra ad Angelino Alfano che invoca Daspo a vita per i violenti. È insomma andato in scena il teatrino che ormai conosciamo a memoria: una sequenza infinita di dichiarazioni, sempre più forti e battagliere, cui seguirà come al solito un nulla di fatto. Una delle poche voci fuori dal coro è quella del professor Sergio Manghi, sociologo dell'Università di Parma e grande appassionato di calcio. Mai banale, come nel caso della sua analisi della finale mondiale 2006, “Zidane, anatomia di una testata mondiale” di cui aveva discusso con noi di Vita.it in un'intervista
Manghi è fuori dagli schemi anche questa volta.
 

Sergio Manghi

Professore ha seguito le vicende della finale di Coppa Italia di quest'anno?
Certamente, come tanti altri credo

La vicenda si è compiuta su due livelli. Dentro e fuori lo stadio. Prima la sparatoria poi quella che è stata definita “la trattativa”. A nessuno è sfuggito che, mentre polizia, mondo del calcio e addetti ai lavori discutevano in diretta tv con i capi delle curve, sugli spalti c'erano i presidenti delle società, i capi del mondo del calcio, il Presidente del Consiglio e i capi delle forze dell'ordine. È normale che lo Stato nella sua più ampia accezione e nei suoi uomini chiave stia a guardare una “trattativa” del genere senza battere ciglio, per altro senza reagire in alcun modo neanche il giorno dopo?
Mi verrebbe da dire di si. Ho seguito anche l'ondata di indignazione che ha seguito, come movimento di opinione più forte, per queste presunte trattative. Si è parlato di legittimazione del tifo violento o addirittura della camorra. Intanto bisognerebbe parlarne fra due o tre giorni, quando questa polvere di indignazione, non so quanto veritiera, si sarà diradata e si vedranno meglio i contorni delle cose. Io partirei da un dato elementare. In quello stadio non c'è stato alcun ferito. Il rischio è che ce ne fossero e tanti. Rispetto alla violenza potenziale che poteva svilupparsi in quel contesto io credo che quello che hanno fato le autorità nella sostanza è stato il meglio. Qualunque sfumatura, rispetto a questa sostanza, è poco rilevante. È un piccolo miracolo per cui credo vada dato atto alle istituzioni presenti. Ho sentito che i presidente del Senato Grasso ha dichiarato di essere rimasto per rispetto ai tifosi non violenti. Per me ha fatto bene a rimanere perché l'istituzione non deve fuggire difronte alla violenza. Direi che la missione ultima, più profonda e difficilissima, dell'istituzione democratica è proprio far fronte al rischio della violenza. Violenza che è dilagante nella società, molto più fuori che dentro gli stadi. Questo è un computo che risulta molto più a favore degli stadi se pensiamo che si tratta di assembramenti di folle inferocite. Bisogna riuscire a riconoscere i modi attraverso i quali una violenza endemica nel tessuto sociale che si esprime e concentra con fatti molto più gravi e orrendi degli scontri negli stadi, si possa lenire. In questo Paese non si riesce a scandalizzarsi abbastanza per la violenza che ci circonda mentre si riesce a scandalizzarsi perché in uno stadio le istituzioni sono state in grado di prevenire una escalation terribile. Sul piano di una morale puritana forse era giusto sospendere la partita. Ma poi cosa sarebbe successo?

Certo ma bisogna tenere presente che non è la prima volta che succedono fatti simili, anzi si tratta ormai di una triste consuetudine, che non è mai stata affrontata. Viene poi da chiedersi se l'unico modo per le istituzioni di affrontare questo problema sia perdere la faccia. È stato fischiato sonoramente l'inno nazionale… 
So che la lettura che viene data dei fatti è che un dirigente della Digos si è fatto dare il permesso ad un ultrà per poter giocare la partita. La lettura invece dovrebbe essere che un dirigente della Digos è riuscito a farsi dare dal tifoso il permesso. Cambia tutto. 

Quello che intendo dire è che posso essere d'accordo sul successo delle operazioni in quella sera particolare. Ma rimane il fatto che continuiamo ad avere questo problema. Domenica è andata bene, domani potrebbe invece andare molto male. Ci troviamo a parlare sempre degli stessi problemi…
Ma certo. Su questo piano credo che dovremmo interrogarci su due aspetti: uno generale e uno prettamente italiano. In generale le istituzioni democratiche sono costitutivamente molto fragili, i sistemi democratici sono fragili perché soggetti quotidianamente e ininterrottamente a pressioni e conflitti di massa che devono in qualche modo regolare e trasformare in orizzonti futuri. In Italia questa fragilità è moltiplicata perché c'è una larga cultura anti istituzionale che oscilla tra la critica a priori e l'aspettativa che l'istituzione sia forte e prenda decisioni drastiche e dirimenti istantaneamente. La società italiana è pervasa di violenza e le istituzioni in questo contesto fanno una fatica terribile. Sembra che quello che è successo abbia fato perdere la faccia alle istituzioni, ma la verità è che l'hanno persa un sacco di tempo fa, dai tempi di Cola di Rienzo. Se Dante scriveva: «Ahi serva Italia, dei dolori ostello»…     

Tornando più strettamente al calcio lei ricordava giustamente che, nei commenti post partita, c'è chi ha parlato di camorra, chi di dialogo e chi di Daspo a vita. Non sarebbe il caso, prima di pensare alla medicina, di provare a diagnosticare la malattia?
Non c'è dubbio. Il fenomeno calcio è frainteso sia dalla coscienza collettiva che da quella interna al mondo del pallone. È considerato come un mondo a sé stante separato dal resto. Questo non è vero. Nel periodo in cui ho scritto il libro su Zidane avevo scoperto, ma i dati saranno da aggiornare, che ogni domenica in Italia si giocano 16mila partite di pallone, tra calcio professionistico e amatoriale. Pensiamo a quante persone lavorano a vario titolo, giocano e seguono quindi il calcio ogni week end. Significa che ci sono più partite di calcio che messe e sono più frequentate. Stiamo parlando di uno stabilizzatore sociale di un'importanza enorme che ciclicamente fa confluire in luoghi chiusi e regolati conflitti enormi. C'è da stupirsi che non accada qualcosa di violento ogni giorno. Per questo dico che c'è più violenza fuori che dentro gli stadi.

Un altro aspetto interessante è quello dei giornalisti…
Certo, ci inzuppano il pane…

Ogni volta i commentatori parlano di «quattro delinquenti». Ieri sera però si è visto “Genny a'carogna” intimare lo stop delle ostilità ad almeno 10mila tifosi che gli obbediscono. Forse anche il fenomeno ultras andrebbe capito e analizzato…
Si. Il fenomeno ultras è un sottoinsieme di qualcosa di più grande che si chiama folla. Sentivo dire ad un commentatore alla radio: «avrebbero dovuto spiegare alle persone che fuori non era successo nulla». Ora le persone non sono la folla. È un fenomeno che è studiato sin dai primi dell'800 e che trasforma le persone, a volte nel bene a volte nel male. Di fronte ad una folla parlare di tre o quattro è una menzogna. Perché se una folla di fronte a certi avvenimenti tace è complice di quei tre e quattro, che da quel silenzio acquistano legittimazione e forza. Non esiste lo spettatore neutrale. Bisogna avere il coraggio di analizzare il tifo come fenomeno di folla e che comporta necessariamente questo rischio.    
  
A questo dobbiamo aggiungere dei dati che sappiamo essere reali, come il legame delle società sportive con questo tifo estremo, cui vengono elargiti biglietti e denaro. L'ultrà italiano è forte della folla e della connivenza dei club di riferimento…
È chiaro. Le squadre non potrebbero vivere senza ultras. Il calcio dà una visibilità che pochissimi altri veicoli comunicativi possono dare. Ecco perché un produttore di bulloni decide di investire in una squadra di calcio. Una volta che si ha in mano un club però si cerca la popolarità. Si cerca il pubblico. Ma non esiste la possibilità di avere un grande pubblico senza avere un gruppo ristretto di fan irriducibili, veri o presunti che siano. Una volta c'erano le claque a teatro. Oggi gli ultras negli stadi.   

Se andiamo a vedere la legge non si può poi dire che non ci sia stato un giro di vite per quello che riguarda il tifo. Lei ed io oggi per entrare allo stadio dobbiamo affrontare una burocrazia simile a quella per la visita nei carceri. Regole che però vengono facilmente aggirate dai tifosi organizzati, proprio quelli che si voleva arginare…
Dal punto di vista del mondo del calcio figuriamoci se un ad di una grande quadra non sa come funziona la mobilitazione e l'informazione lungo tutta la settimana che ha nella domenica solo il suo culmine. Quello del tifo è uno sciame che va accudito e curato. Gli ultras sono preziosi e vanno agevolati. Ma non è questo che mi stupisce…

E cosa allora?
Il mondo dei giornalisti non lo capisco. Perché mai un giornalista minimamente accorto dovrebbe parlare di quattro delinquenti? Come si fa a pensare che una curva sia una somma di individualità? Il fatto che sia un fenomeno di folla di per sé non è né positivo né negativo…

Se la violenza è sedata è anche merito del calcio insomma?
Un merito ambiguo, come ogni merito. È un merito che è sempre venato, come nella "trattiva” di domenica, dal fatto che per ottenere dei risultati deve incamerare una certa dose di veleno. Ma voglio vedere qual è il mondo umano totalmente privo di ambivalenza. Anche i santi sanno che il demonio li tenta ogni mattina, se sono veri santi. Come diceva Enzo Bianchi parlando dei Papi Santi «ricordiamoci che santità non è impeccabilità». Ogni azione rivolta a contenere e trasformare la violenza necessariamente gioca a scacchi con il male. Per cui, senza smettere di esprimere giudizi e sentimenti di orrore, bisogna guardare in faccia la realtà. Se ci si scandalizza troppo, tutti i giorni, non si capisce più per cosa valga la pena scandalizzarsi.       

Detto tutto questo bisogna capire come affrontare il problema. Oggi sembra esserci un solo bivio possibile tra dialogo o pugno duro. Siamo sicuri non ci siano terze vie?
Se il bivio è questo siamo alla frutta. Mi rifiuto di pensare che ci siano solo queste due possibilità. Il pugno duro, soprattutto in Italia non è credibile. Perché qui si può usare esclusivamente dando la colpa a qualche capro espiatorio. Quanto al dialogo non si può proporlo come metodo, come se fosse la salvezza. È una pratica che va valutata volta per volta concretamente. Ma non esiste che venga posto come strategia o linea di condotta. La vera e l'unica possibilità penso, molto modestamente, sia quella di lavorare per la verità con pazienza assumendosi le responsabilità concretamente. Bisogna sperare che la politica e la cultura riescano a disegnare degli orizzonti di senso che diano speranza alla gente. Che ci sia la possibilità di qualcosa di migliore della situazione attuale. Quello della violenza è il problema dei problemi per l'uomo. Se noi riusciamo a sviluppare un amore per la fragilità nelle relazione e nelle istituzioni, invece della critica alla fragilità, ci rafforzeremo. Non sopportare il fragile porta a passare dalla disperazione alla violenza. 

“Genny a'carogna” è riuscito anche in un miracolo: ha resuscitato Mario Monti e la proposta del chiudere il calcio per due anni. Che ne pensa?
(Ride) Con tutto il rispetto per Monti se un mio studente ad un esame mi dicesse una cosa del genere verrebbe bocciato. Significa non sapere come funziona la società. È un linguaggio elitario di persone abituate a frequentare le elite. Persone che fingono di essere educate fra loro ma che poi appena possono si accoltellano fra loro


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