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Beati noi! L’orazione civile di Maurizio Maggiani

Lo scrittore lancia un'invettiva intensa e poetica, con molto sdegno ma senza rancore contro una generazione che ha dissipato ciò che aveva ricevuto in dote.

di Marco Dotti

«Beati noi che ci hanno fatto senza tanti discorsi. E senza tanti discorsi ci hanno portato in chiesa e ci hanno fatto benedire il nome. E ne sono venuti fuori nomi facili da ricordare, senza troppe intenzioni a caricarci le spalle neonate».
Inizia con queste parole – «beati noi» – il nuovo libro di Maurizio Maggiani (I figli della Repubblica. Un'invettiva, Feltrinelli, euro 8) Poche pagine – sessanta – sufficienti per definire il tono eticamente denso di quella che, fin dal sottotitolo, viene qualificata come “invettiva”. Invettiva, leggiamo nel vecchio ma mai invecchiato dizionario del Tommaseo, deriva dal latino invectus, nel senso di irrompere improvvisamente, con impeto e con impeto scagliarsi sulle cose. Il discorso dell’invettiva (invectiva oratio) è tipicamente orale, proprio perché improvviso e mosso da sdegno per uno stato di cose. Implicito nell’invettiva è anche il movimento del levare, oltre che quello del battere. Anzi, si potrebbe dire che non vi è invettiva senza la necessità di togliersi di dosso un peso.
Parla della sua generazione, Maggiani, che è nato a Castel Nuovo Magra nel ’51. Una generazione che ha fatto la comunione sotto Tambroni e la cresima sotto il governo Moro, che non ha avuto il tempo di sentirsi dire se era intollerante al lattosio o al glutine, che mentre i carri armati entravano a Budapest era ancora intenta a studiare la Cavallina storna. Una generazione che ha assistito alla mutazione antropologica di operai che, anziché cantare l’Internazionale, si dilettavano con l’ultima canzonetta del Festivalbar. Una generazione che ha «visto tutto e non ci hanno mai fatto vedere niente», ma ha «visto passare la madonna davanti ai comunisti e aveva le lagrime agli occhi». 
E poi, ricorda Maggiani, «ci hanno dato persino un papa, dico un papa, che si è messo a guardare la luna in mezzo alla processione del Venerdì santo e ci ha puntato il dito sopra. Fortunati noi che abbiamo avuto la sua carezza per tramite delle inesauribili mani delle nostre madri». Questa generazione di “beati” ha goduto delle battaglie dei padri, degli scioperi per lo straordinario e per il contratto, ma quando si è trattato di lottare… I figli della Repubblica hanno mandato a fuoco tutto. Non per la “rivoluzione”, risibile per le sue conseguenze materiali, devastante per quelle immateriali – valoriali, culturali, etiche…
Schiacciati dai rampolli irrequieti della borghesia di buona famiglia, i figli degli operai hanno rinnegato la loro, quella che con semplicità e laboriosità li aveva cresciuti e si sono tirati addosso dannazioni – e bastonate – che quegli altri erano abili a schivare. Poi? Poi è finito tutto, i rampolli sono tornati a fare i rampolli – magari scrivendo editoriali sui “giornali di regime” – e i figli degli oramai ex operai si sono trovati con un mondo devastato negli affetti, nei legami, nelle sue forme di vita. Beati i primi, perché saranno primi anche nel regno dei cieli – ammoniva il sarcastico Borges nella sua riscrittura dei Dieci comandamenti. Ed è stato così. 
«Abominio sui senescenti rampolli dell’ex marcescente borghesia che si sono fatti trovare pronti alla rinascita, lavati e stirati», che si sono goduti la dote dei padri e delle madri «senza rilasciare ricevuta alcuna». Ma contro questi primi, contro i beati di ieri, di oggi, di sempre le parole di Maggiani si scagliano con durezza: «che siate maledetti!». Meglio essere ultimi, meglio patire ancora una volta il torto che infliggerlo, sembra suggerire con dolce e rabbiosa malinconia Maggiani,. Meglio così, e  riconoscersi colpevoli, che mangiare in eterno nel piatto dell'infamia. 

 

@oilforbook


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