Welfare & Lavoro

Non credete a chi dice che per lottare contro la povertà servono più fondi

Tiziano Vecchiato, direttore Fondazione Zancan di Padova, analizza la politica di contrasto alla povertà e spiega: «la soluzione è il welfare generativo, dobbiamo superare l’assistenzialismo e le nostalgie di un passato assistenziale e settoriale»

di Tiziano Vecchiato

Impreparati e in ordine sparso
La povertà mette a nudo quanto grandi siano il disagio, la deprivazione e la carenza di mezzi per vivere in condizioni sociali ben identificate, di troppe famiglie con figli piccoli e molte persone espulse dal mercato del lavoro. È una società che non ce la fa, senza pari opportunità, senza futuro per le nuove generazioni. Esclude e non costruisce speranza. La povertà assoluta è cresciuta e si è consolidata la povertà relativa. Insieme alimentano la povertà di lungo periodo, quella “a speranza zero”, mentre la possibilità di diventare poveri riguarda sempre più persone. Chi sa di poterne uscire, come avviene per molte malattie, non avrebbe paura.
Fino a pochi anni fa chi diventava povero poteva contare su tecniche di autoprotezione: con la povertà dignitosa, senza mettere in pubblico il proprio privato, senza presentarsi alle istituzioni come bisognoso e richiedente aiuto assistenziale. Oggi non è così: avviene tutto in tempo reale, davanti a tutti, senza possibilità di prepararsi per affrontare i problemi. Molti stanno dando un senso esistenziale a questa incapacità, visto che non è possibile vivere ai livelli precedenti e bisogna imparare ad avere meno esigenze, a consumare diversamente, in condizioni di essenzialità. Il numero crescente di poveri “assoluti” lo testimonia. Non è facile adattarsi, anzi riconfigurare comportamenti sociali che non riguardano “poveri individuali” ma “impoverimenti collettivi”. Chi non accetta questa cruda verità non può contare su supporti ideologici e culturali diventati angusti e settoriali. Il problema li travalica e una sorta di metastasi trasforma la questione povertà in qualcosa di molto più impegnativo, non più trattabile con risposte tradizionali.

Le risposte tradizionali sono degenerative
Cosa hanno di particolare le risposte tradizionali? Hanno semplificato le soluzioni al punto da unificarle in tanti trasferimenti economici, simili per contenuti e denominazioni. A Milano ne abbiamo contate 65 forme, cioè 65 modi di dare denaro a chi chiede aiuto assistenziale (Bezze e Geron 2012) .
La domanda di integrazione del reddito è espressa da persone anziane, genitori con figli piccoli, persone con disabilità e con necessità di cure particolari, persone sole e senza lavoro, persone che lavorano ma poco e saltuariamente. Gli espulsi dal lavoro e molti giovani senza lavoro stanno peggio, per ragioni diverse ma con lo stesso risultato. L’unità di misura per capire se e quanto aiutare è la capacità economica, senza guardare ad altre capacità. In realtà, poter contare su circa 65 possibilità di “trasferimenti sociali”, non esaurisce le fonti disponibili. Si possono ottenere anche altri trasferimenti: dalla beneficienza privata, da istituzioni religiose e da altre forme di sostegno discrezionale. Chi sostiene che in Italia non esiste un reddito di inserimento sociale non conosce o finge di non conoscere le diverse forme di reddito “garantito” praticate su vasta scala, in modo categoriale. Insieme costituiscono un grande flusso di miliardi di euro: multicentrico (da fonti parallele) e multilivello (da stato, regioni ed enti locali). È un sistema assistenziale non governato ma soltanto amministrato. Anche per questo è fruibile da chi ne ha diritto ma non sempre ne ha bisogno. Ad esempio, le integrazioni al minimo delle pensioni sono una forma di integrazione assistenziale del reddito, garantite in modo universale ai pensionati, anche a quelli che risultano poveri sul piano amministrativo e ricchi sul piano patrimoniale. Un altro esempio sono gli ammortizzatori sociali (normali o in deroga), anch’essi trasferimenti per ridurre la povertà dei beneficiari. La lista potrebbe continuare evidenziando quanto gli aiuti siano categoriali ma, a certe condizioni, confluiscono a vantaggio delle stesse persone. Tecnicamente non c’è quindi alcun problema a introdurre ulteriori forme di trasferimento: basta collegarle a criteri per ottenerle. Ma sarebbe una riforma? Sarebbe, come alcuni sostengono, finalmente lottare contro la povertà? Chi dice che l’Italia è tra i pochi paesi che non ha soluzioni di reddito garantito non conosce quello di cui sta parlando o, più probabilmente, strumentalizza il problema per altri fini. Non da oggi è risaputa la necessità di semplificare la complessa architettura giuridica del nostro sistema di protezione sociale. Il Capo V della L. 328/2000 aveva previsto la necessità di rivedere il sistema dei trasferimenti, riconoscendolo come poco equo, non funzionante, inefficiente. Per questo andava riformato. Sono passati 15 anni e le tentazioni di ritorno a schemi di welfare degenerativo alzano la voce. Invece di rendere capace l’intero sistema di aiutare veramente chi è in difficoltà propongono ulteriori misure per assistere.

Disorientare o cercare soluzioni?
L’effetto disorientamento impedisce di affrontare il problema. Un prezzo che già paghiamo è soprattutto la crescente burocratizzazione e l’incidenza dei costi amministrativi. È avvenuto per la vecchia e nuova social card e si ripropone ogni volta che all’incontro delle responsabilità si sostituisce quello delle documentazioni. È welfare degenerativo che consuma senza rendere, rigenerare, responsabilizzare (Bezze e Geron, 2014 ).
Le mezze verità hanno spesso bisogno di dichiarazioni allarmistiche, convinti che servano per scuotere le sensibilità politiche. I politici sono sensibili al problema, ma per ragioni di consenso. Le verità della povertà non dovrebbero invece far paura: chiedono di imparare a parlare delle cose reali, mettendo sul tavolo tutti i termini del problema. È anzitutto necessario collegare i “nuovi” trasferimenti proposti con tutti quelli “già in essere”, per non fare la fine di chi, senza memoria, ricomincia da capo. Le numerose fonti di risorse già destinate ai poveri vanno portate in chiaro, verificando il loro impatto e rendendolo pubblico. Non sarà così difficile riconoscere quello che già ci dicono i confronti europei, e cioè che nel nostro paese la riduzione del rischio di povertà “dopo” i trasferimenti (escluse le pensioni) non va oltre il 5%, a fronte di una riduzione almeno doppia a livello europeo. È un impatto modesto, che non cura la malattia, anzi ci vede agli ultimi posti per incapacità di affrontarla. Non è quindi, come alcuni sostengono, “perché non lottiamo contro la povertà” ma semplicemente perché le “lotte” praticate sono inefficaci, inappropriate, assistenzialistiche.
La nostra spesa pubblica, già piena di problemi, non può sopportare ulteriori inefficienze. Le disuguaglianze stanno crescendo rapidamente per la crisi, ma anche per scelte (e non scelte) istituzionali che penalizzano soprattutto i più deboli. Che fare? Evitare di discutere avendo già deciso la soluzione. Evitare di fare un piano di lotta alla povertà “separati” da altre azioni di lotta, visto che l’alternativa al non lavoro è l’assistenzialismo. Ma può bastare? Certamente no, anzi nella recessione di welfare che stiamo vivendo l’incontro tra diritti e doveri è sempre più necessario. Lo prevede la Costituzione, ma abbiamo potuto evitarlo con scelte di politica sociale basate su diritti senza doveri. Un cambio di passo, anzi di paradigma, è necessario. I costi possono diventare investimento, con soluzioni di welfare generativo. Sono soluzioni esigenti, perché devono accettare la sfida del rigenerare, rendere, responsabilizzare (Fondazione Zancan, 2013) . Sono esigenti perché chiedono verifiche di esito e di impatto sociale, ben oltre quindi le nostalgie di un passato assistenziale e settoriale. Hanno lasciato in ombra le responsabilità, le capacità, i doveri. La verità è che anche i poveri possono rivendicarli per lottare insieme contro la povertà.


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