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Sono tornato a guardare il cielo

È appena uscito Earth Hotel, il nuovo e quarto album di Paolo Benvegnù. All'interno dei dodici brani del disco trova posto l’amore in ogni sua declinazione. Un inno fortissimo alla vita che affonda le radici nel viaggio dalla città alla nuova dimensione di Città di Castello, in Umbria

di Lorenzo Alvaro

«Dodici brani in cui l’arte e la poetica di Benvegnù esplorano l’amore da diversi punti di vista. All’interno dell’Earth Hotel, luogo a cui tutti apparteniamo ed in cui tutti abitiamo, trova posto l’amore in ogni sua declinazione, i luoghi dove esso si espande e si consuma, i viaggi che ne acuiscono la distanza o la riducono, i tempi brevi o lunghissimi che ne scandiscono i ritmi. Un inno fortissimo alla vita, urlato a gola piena. Una riflessione profonda e ammaliante, senza sconti, lucida ed appassionata, carica di amore, necessità irrinunciabile che l’artista persegue con l’ostinazione di un capitano che, senza bussola, affida alla propria intuizione e alle stelle la sua rotta». Così il sito ufficiale del cantautore Paolo Benvegnù definisce la sua ultima fatica, Earth Hotel, quarto album solista dopo aver lasciato gli Scisma. Noi abbiamo deciso di farci fare da cicerone, per scoprire questo nuovo lavoro, direttamente da lui.
 

Paolo Benvegnù

In rete per lo più chi si riferisce a te lo fa parlando dell’ultimo «dei grandi cantautori italiani»…
Sono vittima di un errore giudiziario come quello di Arcore (ride). Assolutamente non è così, ci sono state della altezze ben più importanti e presenti. Io faccio quello che posso, sono un essere umano, per cercare di stare bene e far stare bene le persone intorno a me nel quotidiano. Direi che oggi è molto più eroico crescere dei figli

È uscito il tuo nuovo album. “Earth Hotel”. La cosa che mi ha colpito subito è la copertina. Una foto di Mauro Talamonti. Perché l’hai scelta?
Mi piaceva questo mescolare il verticale e l’orizzontale. Siamo tutti intrisi di questo. Da un lato c’è la stratificazione dell’orizzontale che ci porta a vivere più possibile vicino alle nostre consuetudini. Mentre il tendere verso il verticale il de-siderare, andare verso le stelle, è chiaramente un accompagnamento verso l’alto, ambizioso. Una tendenza insita nell’uomo. Però ci sono desideri sani e meno sani. La cosa bellissima delle foto sono però queste barche sperse nel mare orizzontale. Non siamo un po’ così, come queste barchette, che ne sappiamo noi di questo mare?
 

La copertina di Earth Hotel
Sì, la cosa più bella è forse questo ribaltamento per cui c’è una verticalità malsana del grattacielo che è opprimente, di fronte all’orizzontalità libera del mare…
Quel palazzo è un po’ il vecchio adagio del indicare la luna e guardare il dito. È paradossale. Ma è così, specialmente oggi che c’è una grande confusione. Confusione creata ad arte, perché ci hanno insegnato a guardare il dito e non la luna.

Dall’altra parte c’è invece un cielo immenso. Però c’è da dire che non è un cielo particolarmente felice, o no?
Non è felice perché è stato liofilizzato della poesia. Quello che diceva Pasolini, di partire dai dialetti per arrivare al sacro, era questo. Il vero grande pericolo che specialmente noi in Italia abbiamo corso è la seduzione della parola e dell’oggetto rispetto al sacro della vita di prima, quella prettamente agricola. Ma gli uomini non sono soltanto parola e gesti superficiali, non sono fatti per questo. Anche se la nostra società è perfetta per la parola e il gesto superficiale gli autoscatti. Io sto in Umbria, qui il selfie la chiamano “auto arsomiglio” perché la foto non è la realtà ma “arsomiglia”. È successo che ci hanno tolto tutto ciò che di misterico c’è nell’uomo. E quindi anche la capacità di muoverci in armonia con il tutto.

Tu sei andato a vivere a Città di Castello, in Umbria. Questa differenza di sguardo sulla realtà di cui parli è possibile che c’entri con questa fuga dalla città?  
Ho fatto un viaggio verso l’affitto più praticabile (ride). La fortuna ha voluto che in questo posto economicamente più sostenibile si veda il cielo in maniera molto più netta e garantita rispetto alla vista che può esserci nelle grandi città. È come se fino all’anno scorso abbia rincorso qualcosa sempre guardando per terra e ora mi sia accorto che ci sia un cielo sopra di me. E io lo guardo e sorrido. Forse questo vuol dire solo che ho bisogno di un Tso (ride).

No, avendo una casa vicino Spello capisco cosa intendi. Anche sul linguaggio c’è questa differenza nell’uso di parole che crea un effetto divertente. Ad esempio lì parlano sempre di piantoni, “li piantuni” e per tanto mi sono sempre chiesto dove fossero tutte questi militari che controllano la situazione. Poi ho scoperto che erano gli olivi…
Bè tutta una serie di guardie nei cambi che non fanno una sega non è male, sarebbe interessante anche artisticamente, una cosa iperreale (ride)

Ma c’è anche la questione dei materiali. Le case giù sono tutte di pietra. A Milano ormai abbiamo solo lamiere, plexiglass, al limite acciaio…
Ho vissuto a Milano 25 anni ma in realtà le cose che mi avvicinano a quella città sono solo i profumi. Perché il resto, come in tutte le grandi città, è molto neutrale. Le grandi città ti accolgono proprio perché neutre. Come le stanze degli hotel.

Earth Hotel?
Sì, stanze in cui vai, permani, e poi riparti rinnovando questo meraviglioso tentativo di essere felici ma in realtà, autocitando il disco, “nutro la mia essenza”. Qui per me invece è più semplice vedermi all’interno di qualcosa. Anche solo delle ore che passano. Avere la percezione del tempo senza guardare l’orologio ma vedendo finalmente la luce.

Un rapporto con la natura sempre più difficile a Milano, basta che pensi alle continue esondazioni o all’Expo e alle sue nuove cattedrali…
Ma per forza. Siamo alla terza rivoluzione post industriale fondata sul denaro, anzi sulle transazioni di denaro. Non sapendo dove mettere il famoso plusvalore di cui parlava Marx, costruiscono mostri inutili. Qui ancora non sono arrivati con i loro centri commerciali e ponti calatraveschi. E questo significa avere una vita più di prossimità. Non vorrei passare per bucolico eh.

Recentemente sono stato a Rozzano in un centro commerciale che si chiama Fiordaliso…
Bel nome, come una nota cantante anni 80, non lo sapevo, complimenti (ride)

Quello che mi ha colpito molto è stato scoprire che nel mezzo di una distesa di cemento com’è l’hinterland milanese c’è questo posto che invece ha l’erba. Solo che è sulle pareti delle facciate, che sono anche l’unica cosa di legno!
(Ride) Vedi che ho ragione “De Chirico in un centro commerciale. È naturale l’innaturale”. Oggi estraiamo le persone dai luoghi per mandarle in non luoghi che però sembrino luoghi. È una follia senza fine. Comunque in questo posto che dici ci andrò. Abbiamo in cantiere un progetto. Non dico di più.
 

La facciata del centrocommerciale Fiordaliso di Rozzano (Mi)

All’interno naturalmente centinaia di famiglie passeggiano e fanno lo struscio…
Però capisci quanta sicurezza dà. Lontano dai ragni e dai bruchi. Ma soprattutto lontano dalla miseria. Perché la miseria della natura ci ricorda la nostra, e ci fa paura. Io lo comprendo, e per questo mi fa tenerezza. Una volta, nell’800 e nel ‘900, c’erano le uniformi. Erano fondamentali perché ti davano un ruolo e tu sapevi di avere una funzione. Oggi invece, nell’iper-libertà sono cazzi, è difficilissimo.

Il rapporto con i non luoghi fa diventare anche il desiderio un bene di consumo. Tu invece canti “ora ho più domande”. Sono i luoghi e il rapporto con la realtà che aiutano a “prendersi sul serio”?
Certo. Bisogna accettare il mistero in noi e al di fuori di noi. Esistono cose reali e concrete, il disco va a terminare proprio così. Però nella realtà noi vediamo tutto in soggettiva per cui ciò che è concreto per noi può non esserlo per altri. E poi, se tu proietti i nostri piccoli oggetti, le nostre cose, quelle che possediamo, in una dimensione universale, infinita, diventano talmente infinitesimale che non esistono. Perciò esistono ma non esistono. Noi ci muoviamo all’interno di questa forbice. Se partiamo da questo per quanto mi riguarda tutto è degno di essere vissuto. Anche la mostruosità, senza farne apologia. Ma anche la mostruosità è sublime quanto la santità, il misticismo. Noi siamo in crisi di questo. Poi se vogliamo parlare di indie rock, del mercato, di economia e di Renzi, va bene. Ma i problemi sono altri. Ecco perché siamo smarriti e non sappiamo dove andare.   
 
Canti anche “cos’è la vita se non amarsi?”. È un po’ ambigua come frase no?
Si lo è. Può voler dire amare l’altro ma anche amare sé stessi. Però in realtà, rispetto a come ho sempre concepito l’amore il senso è un altro. Parte proprio dalla parola amore. A-mors, non morte. Se partiamo dal significato semantico tutto ciò che facciamo è amore, perché è vita. Ci distoglie dalla morte. Tutto quello che facciamo sono digressioni diverse della stessa grande disperazione. Che io penso però che non sia disperazione ma, nella resa, una grande possibilità di felicità.

Questa tua cura, questo tuo custodire la parola è molto importante in momento storico in cui proprio le parole sono sotto attacco e vengono sovvertite del loro senso…
Non credo di farlo ma ti ringrazio. Se questa cosa è percepita all’esterno ne sono grato. Ma, credimi, io sono veramente un cialtrone. Non mi sento in grado. Posso dire che ho notato che oggi la pubblicità, soprattutto nel campo del lusso o del finanziario, usa la forma poetica. Usano un immaginario sensuale e poetico per vendere delle cose, per instillarti un desiderio superfluo. E mi fa indignare. Come Neil Armstrong passeggiando sulla luna ha cancellato tutta la poetica che l’uomo aveva espresso verso un luogo che era quasi mistico e che in quel momento diventava reale. Fernando Pessoa parlava del “poeta fingitore”. Solo che oggi anche il pubblicitario è fingitore. Quindi poesia e pubblicità sono la stessa cosa.  A questo punto per essere custodi bisogna dire la verità, non si può più fingere. È un cambiamento epocale. E questo vale per la letteratura, il giornalismo e la politica.

Alla fine del libretto del disco chiudi con “Eppure è tutto vero. Anche se non c’è niente”. Non c’era modo di chiudere con un po’ di gioia in più?
(Ride) Eh no. È ciò che ho desunto dalla mia esistenza fino ad adesso. Tutto è vero e importante, ma tutto è frutto della mia visione soggettiva. Attenzione: non dico che la bilancia debba pendere verso il fatto che tutto è niente, anzi è molto importante pensare che tutto sia concreto, reale e importantissimo perché è una grande consolazione. D’altra parte è da tanto tempo che ho scelto i miei amici di carta Nietzsche, Cioran e Ceronetti e io mi ritrovo molto nella loro posizione.

Alleggeriamo un po’. Hai completamente cambiato il modo di comporre le canzoni per questo disco. Cioè?
Questa volta mi sono messo lì e ho aspettato. Una parola, un accordo. Questa parola è brutta, via anche l’accordo. Poi mi sono messo al computer, piccolo e modestissimo, e ho scritto così, dicendomi: “finalmente vado a scardinare la mia scrittura”. Quando poi ho riportato tutto sulla chitarra mi sono accorto che era la stessa cosa di sempre. Ovvero nel conscio  e nell’inconscio sono sempre la stessa tremenda cosa.

In apertura un concerto intervista di Studio35Live
battitiperminuto


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