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Teatro è libertà. Così San Vittore ha conquistato il Piccolo

Intervista a Donatella Massimilla, la regista che da anni lavora all'interno del carcere milanese, e che è riuscita a portare i suoi attori sul palco del Piccolo Teatro milanese. Uno spettacolo indimenticabile

di Redazione

Piccolo Teatro Studio strapieno. Applausi che non finivano mai. Ieri sera a Milano, la seconda replica dello spettacolo di San Vittore Globe Theater ha emozionato ed entusiasmato il pubblico. Merito di quella decina di attori e soprattutto di straordinarie attrici detenuti che hanno dato vita a un evento in cui la loro vita e gli spezzoni poetici di tre grandi spiriti come Alda Merini, Giuovanni Testori e William Shakespeare, si mescolavano in un unico flusso teatrale. Vero deus ex machina di questa esperienza è Donatella Massimilla, classe 1961, romana, attrice e regista di teatro, è a capo della direzione artistica del Cetec, centro europeo teatro e carcere, che da oltre 15 anni realizza progetti di teatro nel sociale. Si è formata con Grotowski e con la compagnia del Living Theatre.

 

Quando è nata la passione per il teatro? C'è stato un memento preciso in cui hai pensato: si, è questa la mia strada?
Ho iniziato ad interessarmi al teatro molto giovane. Frequentavo una scuola di teatro e a 15 anni ho conosciuto Giovanni Testori, ho visto il suo Macbetto. All' università, a Roma, ho frequentato la scuola di drammaturgia di Eduardo. Poi mi sono spostata al Dams di Bologna. Per seguire Grotowski sono andata a vivere a San Arcangelo di Romagna. Lì ho cominciato a lavorare per il teatro di strada. Da quel momento non solo ha iniziato a sgomitare in me la consapevolezza di voler essere un'artista, ma soprattuto è nato forte il desiderio di fare teatro all'interno di una comunità.

 

Perché hai scelto di lavorare per e nelle carceri?
Anche il carcere è una comunità. Avevo bisogno di lavorare su storie di vita, drammaturgie vere e stare con le persone in un luogo altro: ecco il luogo di reclusione è un non luogo. Il laboratorio e il tempo dedicato con amore e passione a questa pedagogia invisibile fatta sui vissuti delle persone mi ha permesso di riscrivere e portare in scena anche opere teatrali importanti caricate però di un significato nuovo: quello della libertà.

 

Il teatro è la libertà dei detenuti?
Assolutamente si. Quando un detenuto si esibisce su un palcoscenico l'indulgenza del pubblico lo rimette in libertà. Abbiamo sempre fatto dei gruppi di teatro assolutamente liberi in cui le persone non vengono selezionate ma sono loro che scelgono noi. Secondo me si crea una sorta di necessità, lo fanno perché lo ritengono un linguaggio importate. Fare teatro vuol dire lavorare su se stessi. La cosa di cui vado molto fiera è che attraverso il teatro abbiamo costruito un ponte tra “dentro” e “fuori”. I detenuti con cui ho lavorato hanno usato l'arte come formazione sia della vita personale che lavorativa: tantissime detenute sono diventate attrici professioniste, o lavorano nei ristoranti perché, come è avvenuto nel carcere di San Vittore, hanno frequentato laboratori di cucina.

 

Perché San Vittore è un luogo importante per te?
Per me rappresenta un cerchio che si chiude: sento che con lo spettacolo San Vittore Globe Theatre, liberamente ispirato a Shakespeare, Testori e ad Alda Merini. Con i cori del Macbetto portati in scena dai detenuti abbiamo pienamente dimostrato che dall'arte parte la metamorfosi per cambiare vita. Poi a San Vittore lavoriamo con il reparto Le Navi dove vengono trattati i detenuti con tossicodipendenze, è chiaro che per questi casi ancora più delicati ci vuole un'attenzione e un grado di sensibilità più alto, cerchiamo di tenere le persone con noi per percorsi più lunghi. Hanno veramente bisogno della nostra piena disponibilità.

 


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