Politica & Istituzioni

De Rita: «l’Italia ha bisogno di riscoprire il gusto della vera politica»

È questo l'appello con cui il fondatore dell'istituto ha chiuso la presentazione del rapporto, aggiungendo che «la società da sola non può farcela. Per questo non può non domandare il ritorno alla politica. Non quella fatta solo di gestione del potere ma quella in grado di creare e orientare le aspettative, di guardare al futuro e di progettare»

di Redazione

Nelle parole del Censis di quest’anno (checché ne dica il fondatore) c'è un appello. I sociologi è raro che si avventurino oltre il loro lavoro di “fotografi di fenomeni”.

Eppure per l'ultimo Rapporto dell'istituto di ricerca fondato da Giuseppe De Rita, la 48esima edizione presentata oggi a Roma, lo schema è un 7-3-1, ma il calcio non c'entra.

Per capire come rimettere in movimento un Paese che è evidentemente bloccato bisogna tener conto cioè: delle 7 giare, dei tre capitali inagiti, e della punta, o meglio il regista, che può consentire di uscire da “una profonda crisi di cultura sistemica”. Ossia proprio un inedito appello finale.

Andiamo con ordine. Le sette giare (il Censis ci ha abituato alle metafore, mai come quest’anno asciutte e chiare, sarà perché dopo tanti anni non si avvale più della fertile creatività di Giuseppe Roma messosi in proprio?) sono contenitori con una ricca potenza interna, mondi che ribolliscono, attivi, “ma senza processi di scambio e di dialettica” con l’esterno. In una parola: sono autoreferenziali, e finiscono per non dare niente al Paese.

Sono: Il grande circuito finanziario internazionale e i poteri sovranazionali; la politica nazionale ‘riconfinata’ nel perimetro interno; le istituzioni sempre più vuote di competenze il cui funzionamento è appaltato all’esterno; le minoranze o mondi vitali (“che ne è?!” si chiede De Rita che riconosce di averci puntato molto negli anni passati) che hanno – secondo il sociologo – “grande vitalità scarsa utilità sociale”; il sommerso (il lavoro, il risparmio…), un fenomeno strutturale, anche in questo caso di grande vitalità e che però non da nulla al Paese”; la gente del quotidiano, con scarsa capacità di andare verso l'esterno, non moltitudine passiva, anzi, ma l'italiano medio ha una razionalità che si gioca tutta al proprio interno; infine la ‘giara’ dei media, che sempre più rappresentano solo se stessi.

Questi sette mondi hanno al loro interno tre capitali da gestire e valorizzare: quello economico- finanziario; quello umano; e quello culturale.

Il primo è costituito sia dalla massa finanziaria liquida delle famiglie e delle imprese che in un periodo di incertezza hanno risparmiato (le prime, se e quando il reddito lo ha permesso, consumando meno e pensando al futuro nel timore della mancanza di reti di protezione in caso d’imprevisti: crescono moneta contante e depositi in conto corrente; le seconde non investendo né in ricerca né in sviluppo, in attesa che passasse la bonaccia e vedendo comunque aumentare, nel complesso, le risorse liquide disponibili).

Il capitale umano: “siamo un Paese -dicono i ricercatori – dal capitale umano inagito perché non riusciamo a ottimizzare i nostri talenti. Agli oltre 3 milioni di disoccupati si sommano quasi 1,8 milioni di inattivi perché scoraggiati, 3 milioni di persone che, pur non cercando attivamente un impiego, sarebbero disponibili a lavorare”. E i più penalizzati, manco a dirlo, sono i giovani 15-34enni, soprattutto i famosi Neet (che né studiano né cercano un impiego, in continua crescita: da 1,9 milioni del 2007 a 2,5 del 2013).

Per finire con il capitale culturale: l’Italia riesce solo in minima parte a mettere a valore il ricco patrimonio culturale di cui dispone. I lavoratori nel settore sono molto meno di Regno Unito, Germania, Francia e persino Spagna. Per non parlare dello scarso valore aggiunto del settore in termini di Pil, a differenza della media europea.

E allora? Su cosa puntare per il riscatto? Ecco l’appello, a sorpresa: sulla Politica, proprio oggi che è ai minimi livelli storici di credibilità e fiducia! De Rita ammette che qualcuno possa restare sorpreso. Lo dice proprio lui, che si è sempre tenuto lontano da essa e per lungo tempo è stato definito il profeta della primazia del sociale sul politico. Eppure afferma: «Dobbiamo recuperare il gusto della politica. La società non può non domandare il ritorno alla politica, altrimenti la società da sola non ce la ». Di certo non quella che conosciamo, aggiunge, ma quella che, spogliandosi della sola attenzione alla gestione del potere, sa rimettere in movimento quel desiderio di creare e orientare le aspettative, di guardare al futuro, di progettare, che è molto, molto di più di un semplice reggere (resistere) alle avversità dei tempi. Senza una politica di questo tipo, i tre rischi individuati dal presidente del Censis, il secessionismo sommerso (e non solo geografico), del populismo e dell’autoritarismo, anche in versione soft ma non meno importante, sono dietro l’angolo. Ma senza una visione di insieme, conclude De Rita, senza una vera capacità di fare sistema (e qui si riconosce il classico pensiero deritiano), le sette giare rimarranno strutturalmente incomunicanti e improduttive. E addio capitali…
 


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