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Fare scuola, fare città

«La scuola» spiega Zoppoli «diventa un luogo di istruzione solo se viene legato all’esperienza. Ma la vera esperienza è quella che si fa in città. Il problema più grande che oggi dobbiamo affrontare è la degenerazione del concetto di città: da luogo di comunità a luogo di paura»

di Redazione

Giovanni Zoppoli è un educatore esterno alle istituzioni, a tutte le istituzioni, comprese quelle del non profit. È animatore di iniziative ostinatamente fedeli ai principi del ben fare e del ben educare. Ha lavorato nei campi rom di Napoli e Bolzano e ha fondato a Scampia, nella periferia di Napoli, il centro territoriale Mammut che ha rappresentato per lui, ma anche per molti altri educatori, un importante momento di formazione e presa coscienza dei fatti. 

Ora Zoppoli ha deciso di condividere le sue esperienze e il suo sapere scrivendo un libro che è un saggio pedagogico e una testimonianza di 15 anni di attività in tante realtà tra le più complicate del territorio italiano: da Scampia al quartiere Don Bosco, dalle Vele a quello di Castel Firmiano.  «Risolvere i problemi e sbloccare le situazioni, creare cambiamento, conoscere il contesto e migliorarlo insieme»: questa è la filosofia di Zoppoli.

“Fare scuola, fare città – il lavoro sociale al tempo della crisi” – questo è l’efficacissimo titolo del libro – che sarà presentato a Napoli, sabato 13 dicembre, alle 18, alla libreria Ubik (via Benedetto Croce 28). Il testo racconta come il problema dell’educazione da una parte e il ruolo che riveste la scuola dall’altra sono due questioni che oggi, forse molto di più rispetto al secolo scorso, non possono essere sottovalutate. Il titolo stesso del libro cerca di focalizzare l’attenzione su questi due temi centrali mettendone in evidenza lo stretto rapporto di consequenzialità.
 

 

«La scuola» spiega Zoppoli «diventa un luogo di istruzione solo se viene legato all’esperienza. Ma la vera esperienza è quella che si fa in città. Il problema più grande che oggi dobbiamo affrontare è la degenerazione del concetto di città: da luogo di comunità a luogo di paura».

L’obiettivo principale è capire come si devono muovere gli operatori sociali dentro la crisi: smetterla di fare sociale e critica sociale, guardare realmente ciò che abbiamo di fronte e agire in base al contesto. «A Napoli due anni di crisi sociale sono bastati a ridurre in macerie molte delle organizzazioni che si occupavano di povertà, emarginazione, disagio. Tutto il nostro lavoro è basato sul fatto che non esistono schemi ripetibili, che possono essere usati allo stesso modo e con la stessa formula ma in contesti diversi. Ogni contesto porta in sé un carattere di unicità alla quale non può non corrispondere, di volta in volta un’artigianalità del metodo», dice Zoppoli.

Nato come manuale accademico, il testo si è in realtà rivelato di grande interesse e utilità per un pubblico molto più ampio perché va a scardinare la retorica dell’aiuto e delle sofferenze, spingendo non solo educatori ma anche singoli cittadini a concepire le periferie non più come qualcosa che sta “ai margini della città” ma come luoghi altrettanto importanti nei quali investire e costruire anche quando il supporto delle istituzioni è quasi o del tutto assente. «Perché», come scrive lo stesso Zoppoli, «diventare coscienti è un primo passo per inventare modi nuovi di fare città, il più responsabilmente possibile».

Essere educatori significa non solo stare vicino ai più deboli nei contesti difficili. Essere educatori significa mettere in crisi equilibri malsani, offrire un’altra visione delle cose, diffondere l’idea che un’alternativa al degrado è possibile. E questo è un “metodo operativo” praticabile in tutte le realtà. «L’importate è» come ricorda Zoppoli, «non diventare lacchè delle istituzioni e credere sempre che un’altra possibilità esiste dappertutto».


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