Cooperazione & Relazioni internazionali

Le responsabilità della società civile francese

Intervista a Thibaut Deligey, Direttore delle Partnership e della Comunicazione presso Ares, il più grande gruppo di imprese di inserimento economico e sociale della regione parigina.

di Cristina Barbetta

Una settimana dopo le violenze che hanno sconvolto la regione parigina e la Francia intera, Vita raccoglie la  testimonianza della società civile francese. A parlare è  Thibaut Deligey, Direttore delle Partnership e della Comunicazione presso Ares, il più grande gruppo di imprese di inserimento economico  e sociale nella regione dell’Île-de-France. Dal  1991 Ares accompagna ogni anno 500 persone emarginate, fornendo loro un lavoro e un accompagnamento sociale.
-Qual è  stata la responsabilità  della società civile francese  negli avvenimenti della scorsa settimana?
C’è stato un fallimento della società civile nei confronti dei due giovani attentatori di Charlie Hebdo. La società civile  non ha saputo evitare  che questi due fratelli, che tra l’altro erano orfani, cadessero  nel  fanatismo e nella criminalità. Ad Ares siamo convinti che il nostro lavoro, che è di inclusione, debba assolutamente contribuire ad evitare questo genere di deriva. La responsabilità non è solo delle strutture di inserimento  come Ares, ma anche delle associazioni che si occupano di giovani, giovani  in difficoltà, orfani. E’ anche la responsabilità dell’educazione nazionale e dello Stato. Si tratta di un responsabilità condivisa. Siamo evidentemente scioccati, feriti e tristi per tutto quello che è successo ma non possiamo dare la responsabilità al fanatismo e non all’ insuccesso della società civile. 
-Che cosa si può fare per migliorare la situazione? 
Da un lato  esistono  strutture e associazioni valide, come Ares. Strutture per lottare contro la disperazione e l’esclusione, per facilitare l’inserimento lavorativo, associazioni per aiutare i migranti a integrarsi. Ma il fatto che esistano non è sufficiente. Ci deve essere una battaglia quotidiana per alimentarle, per aiutarle, per responsabilizzarle. Ci dev’essere un impegno individuale, sia all’interno delle associazioni che a livello delle amministrazioni che si occupano della gestione economica, di combattere tutti i giorni per questo. Al momento in Francia c’è un’ottica di deresponsabilizzazione. Bisogna dare i mezzi alle associazioni, non soltanto finanziari, e aiutarle  a svilupparsi. 
-Qual è il suo stato d’animo e quello di Ares riguardo a quello che è successo? 
Abbiamo sentito in maniera molto forte la tristezza e la disperazione per quello che è successo a Parigi. Tutti questi avvenimenti ci hanno ovviamente molto toccato e ho visto la volontà di difendere i valori in cui crediamo:  che chiunque ha diritto  alla vita indipendentemente dall’orientamento politico e religioso. Tuttavia ho avuto l’impressione che non fosse espressa la nostra responsabilità individuale. Al di là del sottolineare la responsabilità giudiziaria bisognava andare più alla fonte de problema. Che  è la disperazione, l’esclusione dalla società di certe persone che vivono sul nostro territorio, la mancanza in queste persone  di un senso di appartenenza. Il fatto è che abbiamo fallito. Il sentimento di collera e odio di queste persone  è stato nutrito da altri estremisti ma alla base esisteva perché si trovavano in una situazione di esclusione sociale. Su  questo problema credo che non ci sia ancora stata una grande presa di coscienza individuale  delle proprie responsabilità.
Thibaut Guilluy, Direttore Generale del Gruppo Ares, all’indomani della tragedia esorta i colleghi «a meditare e a agire per non lasciare nessuno nella disperazione, perché è sulla disperazione che si formano meglio i fanatismi, gli estremismi e gli oscurantismi… e questo è il senso del progetto Ares»
E conclude dicendo che «A Ares siamo ebrei, musulmani, cristiani, atei e ci sforziamo insieme umilmente di essere un po’ Charlie ciascun giorno della nostra vita»
 


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