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Accoglienza diffusa: l’integrazione che parte dal basso

Don Roberto Davanzo parla del progetto “Rifugiato a casa mia” e delle iniziative di accoglienza di Caritas Ambrosiana per i migranti

di Marina Moioli

Non si ferma e anzi sembra accelerare ogni giorno di più il flusso di persone in fuga dalle coste dell’Africa. Rispetto al 2014, anno drammatico per l'immigrazione che ha visto arrivare in Italia oltre 180mila disperati, gli arrivi sono già aumentati del 59%. Ma nello stesso tempo si moltiplicano anche le iniziative che partono dal basso per accogliere questo fiume di disperati. Come il progetto “Rifugiato a casa mia” promosso da Caritas italiana, che coinvolge 13 realtà diocesane e sperimenta una forma di accoglienza diffusa per gli immigrati.

«Si tratta di un’idea che è stata lanciata in occasione dell’altra grande fase migratoria del 2013 e che consiste nell’offerta di un periodo di ospitalità a coloro che hanno già ottenuto lo status di rifugiati o di richiedenti asilo. Sono singole persone che per alcuni mesi vengono supportate da un sostegno economico e organizzativo per favorire il più possibile la fase dell’autonomia e della responsabilizzazione dei singoli. Tutto si basa sullo stare in famiglia, con persone che aiutano a entrare in una logica di socializzazione», commenta don Roberto Davanzo, direttore della Caritas Ambrosiana. Per le famiglie che aderiscono al progetto "Rifugiato a casa mia" è previsto un semplice rimborso spese pagato da Caritas con fondi propri a copertura delle spese di vitto. 

Un progetto che ha una grande valenza simbolica, ma ancora con numeri limitati: «Parliamo di un centinaio di persone che sono state finora ospitate per un semestre. Ma sono persone che per noi rappresentano una vera ricchezza», continua don Davanzo. «Oggi si fa un gran “blaterare” di integrazione, quando  invece la realtà richiede tempi lunghissimi. Questo progetto ha un po’ la pretesa, la presunzione, di gettare un sasso nello stagno per indicare la giusta direzione».

In tema di integrazione che parte dal basso si moltiplicano anche le iniziative di accoglienza in strutture parrocchiali messe a disposizione di piccoli nuclei familiari, che vengono ospitati in un contesto comunitario protetto. «È il caso, ad esempio di Casa Suraya in via Salerio, presso le Suore della Riparazione nel quartiere Gallaratese», continua il direttore della Caritas Ambrosiana. «Ma in provincia di Milano sono stati ristrutturati vari appartamenti da nostre cooperative a Caronno Pertusella e dalle parti di Legnano per ospitare i rifugiati. Poi ci sono anche iniziative molto più circoscritte, gestite da singole parrocchie. Ad esempio quella di Ballabio, sopra Lecco, ha messo a disposizione di una famiglia africana un piccolo alloggio.  E mi viene in mente una signora anziana della mia parrocchia che ha ospitato per vari mesi una ragazza marocchina. Cose molto semplici, molto anonime, ma molto significative».

Le iniziative, insomma, ci sono, ma come conclude don Davanzo «non è mai abbastanza, non è mai sufficiente. Per affrontare il problema c’è bisogno di fluidità territoriale. Se riusciamo a “spalmare” su tutta l’Italia il gran numero di migranti, nessuno si spaventa. Invece è chiaro che se li concentriamo alimentiamo solo le paure».

 

 

 


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