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Cooperazione & Relazioni internazionali

Burundi: giornate di ordinaria follia

Non si placa la rabbia di una parte dei burundesi che contestano la candidatura del Presidente uscente Nkurunziza a un terzo mandato. Ma nemmeno la repressione delle forze dell’ordine. Bilancio: 4 morti e 46 feriti per la sola giornata di ieri. Intanto cresce la pressione della Comunità internazionale sul regime burundese e il capo di Stato, a cui la Corte costituzionale ha autorizzato stamane di candidarsi

di Joshua Massarenti

Tre morti e 46 feriti. E’ il bilancio delle violenze che ieri a Bujumbura hanno opposto le forze dell’ordine ai manifestanti che dal 26 aprile scorso sono scesi nelle strade della capitale burundese in seguito all’annuncio del Presidente uscente, Pierre Nkurunziza, di candidarsi alle prossime elezioni Presidenziali previste a giugno per un terzo mandato. Una candidature che la Corte costituzionale del Burundi ha approvato stamane, lasciando presagire il peggio nei prossimi giorni.

Una giornata sotto il segno della repressione e delle tortura

Per la prima volta dall’inizio delle contestazioni, i manifestanti sono riusciti a raggiungere il centro della capitale, pagando a caro prezzo il successo della loro marcia. Dopo due giorni di accalmia durante i quali il “Collettivo contro il 3° mandato” aveva chiesto una sospensione delle manifestazioni per ri-organizzarsi e commemorare le vittime delle marce precedenti. Secondo la ricostruzione fatta dal sito d’informazione burundese Iwacu, I giovani sono scesi in strada prima dell’alba (verso le 5) per bloccare gli assi principali di numerosi quartieri, tra cui Kibenga, Kinindo, Musaga, Kinanira, Kanyosha, Mutakura, Cibitoke e Ngagara.

In una città deserta, i primi scontri si verificano alle 10h15, con due feriti segnalati tra i manifestanti alle 10h40 nel quartiere di Kinindo, per poi intensificarsi verso le 11h00 sul Boulevard du 28 Novembre, dove la polizia spara contro i contestatari facendo tre morti e numerosi feriti.

Nel frattempo, il movimento anti-Nukurunziza, composto da giovani, membri della società civile e oppositori politici, si intensifica nel mondo rurale, a cominciare dalla provincia di Bujumbura-rural, dove nel comune di Ijenga i manifestanti chiedono il ritiro della candidatura del presidente, il rispetto della Costituzione e dell’Accordo di Arusha (che vieta un terzo mandato presidenziale), la riapertura della radio indipendente RPA (chiusa il 27 aprile dalle forze di polizia) e il diritto di captare due altre emittenti radiofoniche (Bonesha e Isanganiro) che non possono trasmettere i loro programmi nelle campagne.

Intanto, un’ondata di arresti si abbatte sulla capitale dove decine di manifestanti sono rinchiusi e, secondo le testimonianze di avvocati raccolte dai media locali e dalla società civile, torturati nel commissariato di poliziai di Bujumbura. Sulla sua pagina facebook, il Presidente della Forum per la coscienza e lo sviluppo (FOCODE), Pacifique Nininahazwe, sostiene che “gli atti di tortura sarebbero stati praticati sotto la supervisione del Generale Godefroid Bizimana, vice Direttore generale della polizia nazionale burundese” e fedelissimo al capo di Stato.

La giornata si chiude con un bilancio di 4 morti e 46 feriti (fonte Croce Rossa burundese), che porta a 13 il numero delle persone uccise dall’inizio della crisi e un centinaio quelle ferite, … e un caso clamoroso che scoppia sulle onde di Radio France Internationale (RFI). Mentre tutti aspettano il pronunciamento della Corte costituzionale sulla validità o meno della candidatura di Nkurunziza, il suo vice presidente, Sylvestre Nimpagaritse, denuncia le pressioni esercitate dal regime sulla Corte per pronunciarsi in favore di Nkurunziza. Nell’intervista rilasciata a RFI prima di rifugiarsi in Rwanda assieme alla moglie (a sua volta Presidente della Corte d’Appello di Bujumbura), Nimpagaritse rivela che “la deliberazione è iniziata giovedì scorso. Sui sette membri che compongono la Corte costituzionale, quattro erano contrari ad un nuovo mandato di Nkurunziza perché contrario alla Costituzione e all’Accordo di Arusha”. Una decisione di breve durata che verrà capovolta dal regime con “pressioni enormi esercitate sui giudici contrari, ivi incluso minacce di morte, al punto da convincerli di cambiare parere per salvare la propria pelle”. 

Gli oppositore del regime parlano di colpo duro inferto al regime, già alle prese con pressioni interne che vedono le Forze armate burundesi assumere una posizione neutrale sugli scontri che oppongono i manifestanti a una parte della polizia nazionale e alle milizie Imbonerakure (sostenute dai servizi segreti). Ma la neutralità dell’esercito ha le sue sottigliezze.

Le divisioni politiche dell’esercito

Sabato sera, il ministro della Difesa, il generale Pontien Gaciyubwenge, si era smarcato dalle dichiarazioni del ministro della Sicurezza Pubblica, che aveva paragonato i manifestanti a dei “terroristi” in seguito all’uccisione di due poliziotti nel quartiere di Kamenge. Il generale Gaciyubwenge aveva affermato la neutralità dell’esercito chiedendo che cessassero “le violazioni dei diritti” costituzionali dei burundesi. Fonti del ministero della Difesa citate dall’Agence France Presse, hanno riferito che degli alti ufficiali dell’esercito si erano rifiutati di reprimere i contestatori mantenendo la propria neutralità tra i contestatori e i poliziotti, accusati di rimanere al fianco del regime. Ma domenica sera, il capo di Stato Maggiore delle Forze armate ha affermato in un comunicato che i militari sarebbero rimasti fedeli alle istituzioni e alle autorità dell’esercito. La Forza di difesa nazionale (FDN) “rimane e rimarrà un esercito repubblicano, lealista e rispettosa delle leggi e dei regolamenti del Burundi”, si legge nel comunicato firmato dal generale Prime Niyongabo. Sempre lui ha messo “in guardia coloro che vorrebbero utilizzare la FDN a fini politici che spingerebbe” l’esercito “ad agire al di fuori della legge.

Il comunicato del generale Niyongabo ha il merito di far luce sul ruolo finora oscuro dell’esercito. Molti pensavano che la neutralità dei soldati fosse la dimostrazione di una unanime volontà di proteggere il movimento anti-Nkurunziza, e quindi di opporsi ai disegni del presidente burundese e della sua clicca. Invece l’esercito è diviso tra il desiderio di rispettare le istituzioni e giurare fedeltà all’Accordo di Arusha. “Quello che accadrà nell’esercito avrà ripercussioni molto importanti sull’evolversi della crisi”, assicura Thierry Vircoulon, responsabile Africa centrale dell’International Crisis Group (ICG). “Per ora, questo esercito è politicamente diviso”. E nessuno sa dire chi delle due fazioni attualmente contrapposte avrà la meglio.

La comunità internazionale si attiva, ma non i leader africani

La leadership americana

Intanto crescono le preoccupazioni della Comunità internazionale, già fortemente impegnata su un numero crescente di crisi politiche ed umanitarie (basti pensare alla Libia, il Nepal, la Siria e l’Iraq). Nell’ultima settimana, gli Stati Uniti hanno assunto il ruolo di leadership incontestata nella regione dei Grandi Laghi. Il non intervento di Washington durante il genocidio dei Tutsi del Rwanda nel 1994 spinge la Casa Bianca a prendere le misure necessarie per fermare la repressione e rilanciare il processo elettorale. Tra i responsabili ufficiali occidentali, il sotto-segretario ai Diritti umani e alla democrazia, Tom Malinowski è stato l’unico ad essersi recato a Bujumbura per incontrare le autorità burundesi. Nel corso di una conferenza stampa tenutasi il 30 aprile, “se alcune cose non verranno rispettate, ci saranno delle conseguenze, siamo disposti a prendere anche delle misure personali contro i responsabili delle violenze”, ha dichiarato Malinowski, il cui incontro con il Presidente Nkurunziza si è chiuso con un nulla di fatto. “L’accordo di Arusha ha permesso di risolvere i conflitti etnici e di rafforzare la democrazia. Tutto ciò che di positivo è accaduto in Burundi lo si deve a questo accordo che bisogna proteggere con un consenso nazionale. “Soltanto il dialogo e il compromesso tra tutti gli attori politica e la società civile possono salvare la situazione. Ma ciò non sarà possibile finché le radio rimangono chiuse e gli attivisti della società civile arrestati”. Allineandosi sulle posizioni delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti si sono chiaramente opposti al terzo mandato di Nkurunziza, il cui entourage ha continuato a reprimere i manifestanti dopo la partenza di Malinowski.

Di fronte alle continue violazioni dei diritti civili e umani, ieri il Segretario di Stato, John Kerry, in visita in Uganda, ha aumentato le pressioni sul presidente burundese giudicando la sua candidatura alle presidenziali “anti-costituzionale”.

Italia

Dal canto suo, il governo italiano ha aspettato fino al 30 aprile prima di pronunciarsi. Nel suo comunicato, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale ha espresso “preoccupazione per le recenti violenze avvenute in Burundi, nel contesto della campagna elettorale per le elezioni presidenziali che si svolgeranno a giugno. La Farnesina si rivolge al governo del Burundi perché assicuri il pacifico e corretto svolgimento del processo elettorale, garantendo ai burundesi l’esercizio dei diritti civili e politici.

L’Italia si unisce all'appello rivolto dall'Unione Europea al Presidente Pierre Nkurunziza affinché valuti la decisione di ricandidarsi alle prossime elezioni avendo in mente l'esigenza di riconciliazione e l'interesse del Paese. La pace in Burundi può consolidarsi solo a seguito di elezioni pacifiche, inclusive e rispettose dei diritti umani e in particolare delle libertà di espressione e di manifestazione di tutte le componenti della società burundese”.

A ruota, ieri la deputata PD della Commissione Esteri del Parlamento, Lia Quartapelle, ha dichiarato che "la situazione in Burundi sta prendendo una piega drammatica. Il governo italiano deve sostenere lo sforzo degli inviati dell'Unione africana, delle Nazioni Unite e degli Stati Uniti per la pacificazione del paese. Le dichiarazioni dell'inviato di Obama, che ha anche incontrato gli studenti cacciati dalle universita' dopo la chiusura dei campus da parte delle autorita', dimostrano quanto la situazione sia difficile e critica. A poche settimane dalle elezioni tutte le parti coinvolte e in particolare le autorita' governative sono chiamate a dare prova di moderazione e responsabilita', per evitare il riaccendersi di conflitti anche con motivazioni etniche, che hanno causato una guerra civile lunga piu' di dodici anni. Il rispetto degli accordi di Arusha e della Costituzione rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per salvaguardare l'unita' na zionale e mantenere la pace, come precondizioni per proseguire nel cammino della democrazia e dello sviluppo economico", ha concluso Quartapelle, che segue da molto vicino il dossier burundese.

L’UE

In un comunicato diffuso il 27 aprile, la portavoce dell’Alto rappresentante degli Affari esteri dell’UE, Federica Mogherini, sostiene che “l’intimidazione e la violenza, i morti e i feriti, l’arresto di difensori dei diritti umani e la restrizione dei media, il flusso dei rifugiati nei paesi vicini non hanno spazio nel processo elettorale”. Catherine Ray sottolinea che “la decisione del partito CNDD-FDD di nominare il Presidente Pierre Nkurunziza candidato alle elezioni presidenziali del 2015 è al centro delle preoccupazioni. L’UE chiede al Presidente di affrontare questa questione in uno spirito di riconciliazione nell’interesse del paese e in vista di una soluzione rispettosa degli accordi di Arusha”. Infine, “insieme ai suoi partner, l’UE tiene a ricordare che coloro che, direttamene o indirettamente, sono all’origine di atti di violenza o di violazioni gravi dei diritti umani, saranno ritenuti individualmente responsabili”.

Il 2 maggio, la delegazione dell’UE in Burundi, insieme alle ambasciate della Svizzera e degli Stati Uniti a Bujumbura, hanno effettuato una dichiarazione congiunta nella quale hanno espresso “la loro profonda preoccupazione rispetto all’aumento delle violenze” nel paese, chiedendo “a tutte le parti di far prova di moderazione e di riallacciare il dialogo”.

L’appello di Pittella e la rabbia della Kyenge

Anche il Parlamento europeo si mobilita sul Burundi, in particolar modo il gruppo dei Socialisti e Democratici europei guidati da Gianni Pittella. “La scelta di candidare il presidente uscente per un terzo mandato, – violando gli accordi di Arusha – rischia di far precipitare il Paese in un passato di violenza etnica rendendo vani gli sforzi per un già complicato processo di democratizzazione del Paese”, ha dichiarato il 29 aprile scorso il vice presidente vicario del Parlamento UE. “Siamo consapevoli che l'alto rappresentante Mogherini segue da vicino l'evoluzione della situazione e ci appelliamo a lei perché venga rinnovata la pressione sul Presidente del Burundi affinché ci sia un ripensamento”. “Mi appello direttamente anche al presidente uscente: se ritornasse sulla propria decisione diventerebbe agli occhi del suo popolo e della comunità internazionale il principale attore di una storica transizione democratica. Oggi parliamo di Burundi ma il rischio è quello di un pericoloso effetto domino che coinvolgerebbe l'intera regione dei grandi laghi. Tutti paesi caratterizzati da grave instabilità politica prossimi a decisivi appuntamenti elettorali. Far sentire la voce dell’Europa è un nostro dovere morale e politico”.

Durante l’ultima plenaria tenutasi a Strasburgo la scorsa settimana, l’eurodeputata del PD, Cécile Kyenge, ha ricordato che “oggi ci troviamo di fronte ad una grande responsabilità dalla quale non possiamo fuggire. Siamo in grado di fermare un massacro che rischia di avere le dimensioni di un genocidio nell’Africa Centrale. Sì, genocidio. Troppo spesso non pronunciare questa parola, Signor Presidente, ci ha portati ad osservare vergognosamente inermi stragi di innocenti. La candidatura del Presidente Nkurunziza per un terzo mandato sta avendo effetti devastanti sul Burundi. Condanniamo con forza gli arresti arbitrari, le violazioni dei diritti umani e le limitazioni della libertà di stampa e di espressione che in queste ore il governo burundese sta mettendo in atto. Dobbiamo porre in atto tutte le azioni necessarie per aprire un tavolo di pace nel Paese, se necessario, anche utilizzando lo strumento delle sanzioni individuali contro i nemici della pace. Nel 1994 la guerra civile in Burundi si estese al vicino Rwanda provocando uno dei massacri più vergognosi della storia recente dell’umanità”.

Il ruolo oscuro della Francia

Mentre l’intera Comunità internazionale moltiplica le sue uscite sul Burundi, spicca il silenzio di Parigi. Dal 26 aprile, né il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, né il suo sotto segretario con delega alla Francofonia (di cui il Burundi fa parte), Annick Girardin, si sono espressi. Un silenzio che a Bujumbura alcune fonti raccolte da Vita.it giustificano con l’appoggio della Francia al regime di Nkurunziza in chiave anti-rwandese. “Parigi è ancora alle prese con i vecchi fantasmi etnici”, assicura una fonte della società civile burundese che richiede l’anonimato. “Per loro, il Rwanda e il Burundi è ancora un problema fra Hutu e Tutsi. Chi a Parigi segue la regione non ha mai digerito la perdita di influenza sul Rwanda all’indomani del genocidio dei tutsi rwandesi. Ogni pretesto è buono per contrastare il potere del presidente Paul Kagame, anche appoggiando una personalità pericolosa come il presidente hutu burundese Pierre Nkurunziza. Qui tutti sanno che l’ambasciata francese appoggia il partito presidenziale”. A Bujumbura alcuni non esitano a parlare di un asse Parigi-Pechino-Mosca per impedire qualsiasi ingerenza internazionale negli affari interni burundesi. Ma allora non si capisce perché la Francia è stata all’origine di una proposta per portare il caso del Burundi al tavolo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Una proposta immediatamente bocciata dalla Russia e dalla Cina, contrari “a qualsiasi interferenze nelle vicende costituzionali burundesi”. Finora, solo il Partito Socialista francese si è espresso in un comunicato diffuso il 28 aprile e dai toni durissimi nei confronti del regime. Il PS “esige la riapertura immediata di Radio Pulique Africaine” ed “esprime la sua più grande preoccupazione rispetto alla decisione del CNDD-FDD. Violando la regola introdotta dagli accordi di Arusha del 2000 e ritrascritta nella Costituzione promulgata il 28 marzo 2005, che limita a due i mandati presidenziali, il Presidente uscente si assume la responsabilità di ravvivare le tensioni della guerra civile tra il 1993 e il 2003”. Da allora prevale il silenzio radio.

La leadership africana, grande assente

Oltre la Francia, spicca anche l’assenza della leadership africana. “Eppure spetta a l’Unione Africana e ai leader di continente di assumere in primis la guida internazionale su questa crisi”, sostiene a Vita.it un alto ufficiale dell’UE. “Seguiamo quindi con grande attenzione ciò che l’UA sta facendo”. Purtroppo, ad Addis Ababa le cose non si muovono per il verso giusto. L’appello della Presidente della Commissione dell’Unione Africana, Ndlamini Zuma, per mobilitarsi sulla crisi burundese è cascato a vuoto. Troppo isolata e troppo debole nei confronti di una leadership africana che sta dimostrando tutti i suoi limiti nella sua capacità ad assumersi le proprie responsabilità. Basta leggere il comunicato del Consiglio per la pace e di sicurezza dell’UA sulla crisi burundese pubblicato il 30 aprile per accorgersi che la cautela sembra essere la parola d’ordine ad Addis Ababa. Né il Presidente Nkurunziza, né l’accordo di Arusha (che vieta la sua candidatura) vengono menzionati. Ma c’è chi fa peggio. La Comunità dell’Africa dell’Est (EAC), di cui il Burundi è Stato membro, non ha adotatto nessuna posizione ufficiale. “Ma si sa che i paesi vicini sono un elemento chiave della crisi burundese”, assicura Thierry Vircoulon di ICG. Oltre 20mila burundesi si sono già rifugiati in Rwanda e altri 7mila in Repubblica Democratica del Congo. Si sa che che Paul Kagame e Pierre Nkurunziza hanno discusso. E che il presidente rwandese avrebbe chiesto al suo omologo burundese di non creargli problemi”.

Ma proprio ieri sera, il Rwanda ha deciso di rompere il silenzio con dichiarazioni molto esplicite del ministro degli Affari esteri, Louise Mushikiwabo. “Il governo del Rwanda è molto preoccupato per il peggioramento della situazione in Burundi. L’aumento dei disordini e delle violenze contro civili non armati sono particolarmente preoccupanti”, si legge nel comunicato stampa diffuso dal ministero degli Esteri. “Il Rwanda chiede al governo del Burundi di prendere immediatamente tutte le misure necessarie per garantire la protezione della sua popolazione, mettendo fine a questa situazione umanitaria che non cessa di aggravarsi e di ristabilire la pace”. Louise Mukishiwabo ha dichiarato di “prendere molto seriamente i legami con i FLDR (ribelli estremisti pro-hutu attivi nel Kivu, alla frontiera con il Rwanda e il Burundi). Lanciamo un appello ai dirigenti di fare tutto il possibile per riportare il paese a una situazione pacifica. Lavoreremo con la regione e la comunità internazionale per sostenere la pace”. Ed ecco il passaggio chiave: “Benché rispettiamo la sovranità del Burundi nel trattamento di questioni interne, il Rwanda considera la sicurezza della popolazione innocente come una responsabilità regionale e internazionale”. In altre parole, se le violenze dovessero proseguire, se non addirittura estendersi, il governo rwandese non rimarrà a guardare con le braccia incrociate. In Burundi, c’è chi infatti tema che il Presidente Nkurunziza e la sua clicca allarghino la repressione alla minoranza Tutsi per riunificare la maggioranza Hutu, profondamente divisa tra pro e anti-Nkurunziza. Un disegno politico alla quale si sono già fermamente opposti i leader della società civile burundese. Purtroppo, sulle radio del regime, si intensificano i riferimenti ad una minoranza interna che rappresenta una minaccia per la sicurezza dei burundesi. Un discorso già sentito prima e durante il genocidio dei Tutsi del Rwanda, quando all’epoca gli estremisti hutu definivano la minoranza tutsi “un nemico da eliminare”. Anche fisicamente.


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