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Curcio: «La protezione civile deve diventare uno stile di vita»

Intervista a tutto campo al successore di Gabrielli alla guida del dipartimento nazionale: «Abbiamo la consapevolezza che la cultura di protezione civile non si può disseminare senza un cittadino consapevole ed esperto sui temi di protezione civile»

di Andrea Cardoni

Fabrizio Curcio, anno di nascita 1966, una laurea magistrale in Ingegneria, una carriera nel Corpo Nazionale dei Vigili del fuoco e dal 2007 impegnato presso il Dipartimento Nazionale di Protezione Civile dove svolge le funzioni di Capo Segreteria dell’allora Capo Dipartimento Guido Bertolaso, poi Direttore dell’Ufficio Emergenze fino al 3 aprile 2015 quando, all’indomani della nomina a Prefetto di Roma di Franco Gabrielli, viene nominato Nuovo Capo Dipartimento della Protezione Civile. “Il tema della protezione civile ha sempre caratterizzato la mia carriera fin dall’inizio”, racconta. “In questo percorso il mio primo incarico a Venezia abbiamo aperto il primo ufficio tecnico di Proteizone Civile mettendo insieme Prefettura, Provincia, Comune di Venezia e comando provinciale dei Vigili del Fuoco”.

Il suo predecessore, Franco Gabrielli, ha concluso la sua esperienza ricordando l'importanza della prevenzione come azione fondamentale di protezione civile, con la campagna "Io non Rischio", sottolineando l’importanza del volontariato. Dobbiamo aspettarci cambiamenti? Quali sono le linee programmatiche del suo impegno?
Il volontariato è struttura nazionale di protezione civile: da anni investiamo nel volontariato sia in termini operativi che culturali, che in formazione. Malgrado i tagli che hanno colpito la nostra amministrazione, il Dipartimento di Protezione Civile ha mantenuto una sua linearità sul volontariato e il suo impegno verrà confermato. Abbiamo la consapevolezza che la cultura di protezione civile non si può disseminare senza un cittadino consapevole ed esperto sui temi di protezione civile. In questo senso la linea è quella dell’assoluta continuità. Inoltre abbiamo rinnovato la consulta del volontariato di Protezione Civile che abbiamo confermato come luogo di confronto e relazione tra le associazioni che hanno storie di protezione civile importante alle spalle. Poi ci sono le consulte regionali che a loro volta sono un pinto di riferimento del sistema.

La sua nomina è arrivata in un momento in cui, oltre alla Riforma del Terzo Settore che andrà a coinvolgere gli oltre 400mila volontari di Protezione Civile d’Italia, si sta discutendo in Parlamento anche la Riforma dell’apparto normativo della stessa Protezione Civile. Quale sarà il futuro della Protezione civile in Italia?
Lo strumento normativo non è più allineato con le esigenze dei territori e delle persone. Noi oggi ragioniamo su un corpus normativo di Protezione Civile che dalla legge 225 del 1992 alla 119 del 2013, passando per la legge 10 e la legge 100 è figlio del tempo in cui questi provvedimenti sono stati emanati: ad esempio la legge 100 risentiva di un parametro economico fisso con sfasamento tra l’evento e la dichiarazione dello stato di emergenza che viene riconosciuto a posteriori con il risultato di una profonda incertezza nell’operare da parte delle istituzioni e degli operatori di tutto il sistema. Noi stiamo lavorando affinché si faccia chiarezza sull’aspetto delle deroghe: la tutela degli operatori è fondamentale per la protezione civile e se non hanno la certezza che la loro azione non viene supportata dalla legislazione nasce la paura e ci si tende a tutelare e si diventa burocratici. Da questo punto di vista non vogliamo deroghe, ma norme che ci consentano di gestire l’emergenza in modo rapido. Voglio sottolineare infine che noi possiamo inventarci qualunque norma, ma se non è una norma che ha una reale condivisione che nasce dall’esigenza reale, diventa poi inefficace. Ecco perché i decreti attuativi dovranno essere concertati e analizzati dai soggetti interessati. 

In Italia è previsto per legge che i Comuni predispongano e comunichino il loro piano di Protezione Civile alla cittadinanza. Ma solo il 76% dispone di un piano di emergenza, e in Regioni come Lazio o Campania solo il 40% dei Comuni dispone di un piano. Come intendete procedere?
In protezione civile le cose si fanno mettendo in comune i punti di vista. I comuni sono obbligati ad approvare con la legge 100 il piano comunale, ma poi non sappiamo niente sulla qualità del piano di protezione civile.  Un piano non è un tomo nel cassetto o una snella procedura e non è forzando la mano imponendo dall’alto che riusciremo a essere propositivi. Dobbiamo invece fare un percorso di condivisione: per questo fino al momento della mia nomina, ho sempre suggerito al Capo Dipartimento di far trasmettere i piani nazionali alla Conferenza Unificata. So che quella della condivisione è una via più lunga, ma dobbiamo creare piani attuali e attuabili: per questo il percorso deve essere condiviso con il territorio. La legge 225 è incredibilmente moderna e pulita: parla di sussidiarietà, integrazione, flessibilità. Dice chetutti i cittadini concorrono al Sistema di Protezione civile.

Quali sono le vere emergenze e quali i rischi da affrontare nell’immediato?
Innanzitutto, prendo in prestito una frase di Franco Gabrielli quando dice “Dobbiamo Preoccuparci” non nel senso allarmistico, ma nel senso etimologico di questa accezione: occupiamocene prima. Ci stiamo preparando su tutto: il nostro paese ha delle fragilità strutturali e dobbiamo prenderne coscienza in maniera serena e evitare la propensione tipicamente nostrana che ci si affezioni al rischio del giorno. Dobbiamo prendere atto che, nonostante le dimensioni ridotte, il nostro paese è soggetto a tutti i rischi: quello che dobbiamo fare è fissare le priorità. Oggi c’è una grande attenzione sugli eventi idraulici e geologici, ma dal punto di vista meteorologico gli eventi sono sempre più estremi e impattano sul territorio in modo sempre più forte. La struttura di missione di Palazzo Chigi (Italia Sicura) è una prima risposta perché ha come obiettivo il reperire le risorse che non sono state spese e darsi una priorità degli interventi che vengono stabilite dal territorio. Noi stiamo spingendo sulla consapevolezza, sulla comunicazione: la campagna Io non rischio iniziata nel 2011 con 9 piazze e patrocinata da Anpas, nel 2015 avrà 450 piazze, più di 20 associazioni di volontariato 5300 volontari formati e dovrebbe raggiungere 900mila cittadini. Noi su questo possiamo contare: sulla diffusione della cultura di protezione civile. In Italia conosciamo la pericolosità sismica di ogni comune e aldilà delle infrastrutture, dobbiamo aumentare il livello di conoscenza e coscienza e dobbiamo essere più pronti a comunicare i rischi e dire le cose come stanno.

Per diffondere la conoscenza c’è bisogno di portare la protezione civile tra le persone, soprattutto nella fase di prevenzione. In che modo lo farete?
Dobbiamo diffondere la cultura di protezione civile: un percorso lento ma che va aiutato. In passato abbiamo avevamo anche pensato alla possibilità di inserire la Protezione Civile come materia scolastica. Siamo invece giunti alla conclusione che  la protezione civile non è una materia: deve essere uno stile di vita.

Sempre a proposito di comunicazione molto si sta parlando della comunicazione di emergenza e dell’uso dei social network da parte del Dipartimento di Protezione Civile. Qual è il suo unto di vista?
Noi ci interroghiamo spesso su questo tema: dobbiamo comprendere che cosa ci attendiamo da uno strumento così delicato che se non ben utilizzato crea confusione rispetto ai ruoli. Abbiamo costituito come Dipartimento di Protezione Civile un percorso su questo argomento con un gruppo di lavoro (#socialProciv ndr). Ma alla domanda “perché non twitti?” la risposta è: perché non è compito del Capo Dipartimento e del Dipartimento di Protezione Civile fare una comunicazione di dettaglio sull’emergenza. Il meccanismo di protezione civile è policentrico dove ognuno deve fare la sua parte: il sindaco ha il rapporto con suo  cittadino e il suo territorio. Il Dipartimento di Protezione Civile non ha la potestà, la capacità e la visione del singolo territorio. Dobbiamo anche considerare che le istituzioni hanno tempi di risposta diversi perché l’istituzione riesce a verificare e analizzare quell’elemento di criticità e non sarà mai compatibile con l’informazione che viaggia sul web.

Che differenza c’è tra la comunicazione delle emergenze del passato e le più recenti?
Oggi siamo attrezzati con il monitoraggio anche del web. È cambiata la gestione della sala operativa: mentre ieri avevamo come dati di input dell’INGV, ora abbiamo anche la catena stampa e social che ci aiuta a monitorare il fenomeno che serve a noi per verificare. È diventato tutto più veloce.

La protezione civile di domani?
Sono uno molto concreto, non amo voli pindarici. Abbiamo il sistema di allertamento migliore del mondo dal punto di vista pluviometrico e idraulico. Noi non facciamo solo le previsioni meteo, ma calcoliamo anche l’impatto che avrà sul territorio. Abbiamo un sistema di protezione civile perché siamo da esempio: il sistema di protezione civile europeo è improntato sulla nostra configurazione. È un sistema complesso, ma è un sistema serio. Dobbiamo continuare a lavorare sulla strutturazione di certi percorsi e a lavorare tutti insieme perché la protezione civile non è un nome, non è il nome del Capo Dipartimento: la protezione civile è ogni singolo cittadino. 


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