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Il racconto dei giornalisti di Radio Shabelle sfuggiti al regime

Al seminario formativo per giornalisti dedicato al tema delle migrazioni oggi a Roma hanno parlato cinque giornalisti somali aiutati a lasciare Mogadiscio, dove sono stati vittime di censura e minacce. Ecco la loro storia

di Vittorio Sammarco

“La libertà di stampa non ha confine”. Lo hanno testimoniato oggi cinque giornalisti somali perseguitati e torturati dal regime somalo che, se da una parte tenta una disperata resistenza contro i terroristi di Al Shabaab, dall’altra, nel nome della sicurezza di un Paese devastato dai conflitti interni, perseguita e incarcera le voci libere di chi cerca di fare informazione.

Come quella di Mohamed Bashir Hashi, caporedattore dei programmi di radio Shabelle, che oggi, invitato dalla Federazione nazionale della stampa e dall’Ordine dei giornalisti del Lazio, ha raccontato la sua storia incredibile in occasione del corso di formazione per i giornalisti sul tema delle migrazioni.

Ha raccontato dell’arresto, del finto processo, delle torture e della condanna, il tutto per aver intervistato una giovane giornalista Fatima, che a 18 anni era stata violentata e filmata (messa quindi al “pubblico ludibrio”) da oscuri personaggi delle forze dell’ordine somale.

Lo hanno pagato caro, quel loro lavoro di giornalismo a difesa dei diritti civili di una donna e quel quotidiano impegno per la giustizia e le persecuzioni.

«Abbiamo avuto pesanti ingerenze sia da responsabili istituzionali, sia da quelli che si oppongono alle istituzioni (i terroristi dell’organizzazione Al Shabaab, ‘i giovani’)», afferma Mohamed. «12 nostri amici e colleghi sono stati uccisi e altrettanti feriti. Molti hanno lasciato la patria per paura. Ma questo non ci ha impedito di fare il nostro lavoro di cronisti in Somalia». «Abbiamo pensato di adeguarci, dopo la prima fase di transizione del Paese verso il governo federale, avvicinandoci alle istituzioni – spiega – per essere meglio protetti. Poi però abbiamo verificato che eravamo bersagli anche delle istituzioni federali».

E fa la cronaca di quanto è successo a lui e ai suoi giovani colleghi. «Il 26 ottobre 2013 sono arrivate le forze governative con blindati e macchine belliche e hanno attaccato la sede della nostra radio. Hanno distrutto e saccheggiato tutto, arrestando 35 colleghi. Alla fine hanno chiuso la radio».

In somalo, tradotto in un ottimo italiano dalla giornalista e curatrice del blog su Repubblica.it, Primavera africana, Shukri Said, dopo aver ringraziato gli italiani, la Fnsi, e il ministero che dopo due anni di lavoro ha permesso loro di arrivare in Italia, Mohamed continua il suo allucinante racconto: «Siamo stati detenuti per molto tempo, io, gli altri quattro colleghi presenti, e il direttore/editor Abdimalik Yusuf Mohamud, (a cui in vece non è stato permesso di venire, ndr.). Siamo rimasti in galera e processati per via di un’intervista dopo uno stupro compiuto su una donna da alcuni membri della polizia politica. Nonostante la condanna abbiamo continuato il nostro lavoro. Siamo poi stati arrestati di nuovo, e la radio di nuovo chiusa. Sono stato fuggiasco per 22 giorni e mi nascondevo in ogni angolo della terra di Mogadiscio. E quelli della polizia mi dicevano “prima o poi ti prenderemo”. Mi hanno preso, con 6 auto, quando stavo portando aiuto ai miei amici in carcere, e mi hanno portato in una cella piccola, senza assistenza legale; mi hanno tenuto di notte legato e mi hanno buttato un secchio di acqua ghiacciato; mi hanno messo le corrente elettrica; mi hanno percosso tanto, ma non vedevo e non potevo individuare chi fossero queste persone».

Voce serena, ma evidentemente segnata dal dolore fisico e dal ricordo delle umiliazioni subite: «La cosa che più mi chiedevano – continua – era “chi è che vi aiuta e chi sono i governi che vi sostengono per fare questo lavoro?”. Sono stato 21 giorni dentro, senza contatti con nessuno, al buio. Tutte le notti, sistematicamente, preso e torturato. Senza mangiare né bere, per i primi tre giorni e, dopo, un solo pasto al giorno. Non sapevo per quale motivo fossi lì e di cosa ero accusato. È venuto spesso il responsabile del tribunale, mi hanno chiesto se ero a conoscenza dei 7 capi di accusa, tra cui, attentato alla nazione, terrorismo. Ma io non c’entravo nulla e nulla sapevo. Dopo 21 giorni mi hanno portato nel carcere centrale con altri giornalisti e i veri terroristi. Sono stato sette mesi di detenzione preventiva senza processo. I miei avvocati sono stati minacciati e hanno detto loro di non difenderci perché venivo definito un terrorista. Alcuni dei nostri colleghi sono stati rilasciati con cauzione, ma noi siamo rimasti dentro. Una parte del governo federale, un ramo dei fratelli musulmani che gestisce anche il potere giudiziario, facevano pressioni».

E gli altri colleghi in Somalia? Mohamed dice che l’associazione dei giornalisti di Mogadiscio ha fatto comunicati di condanna, ma non potevano fare molto di più perché anche loro sono sotto pressione: «l'aiuto più forte è venuto da giornalisti che vivono all'estero».

E ora? «Noi avevamo un bavaglio, una censura, volta a non fare sapere alla gente le nostre denunce sulla violazione dei diritti umani e con un potere unilaterale e non obiettivo. Dopo otto mesi di carcere sono stato rilasciato perché il fatto non sussiste. Dopo tre giorni dal rilascio di nuovo arrestato e portato “nel buco della tortura”, un posto tristemente noto dai tempi di Siad Barre». Gli ripetevano che lo avrebbero ucciso se avesse continuato a fare il giornalista in Somalia.

Infine la radio ha riaperto, ma, dice Shukri, chi ci lavora, terrorizzato dalle persecuzioni e dalle torture, ha perso gran parte dell’efficacia e della personalità: si sono purtroppo notevolmente indeboliti.

Le colleghe donne, inoltre, come Fatima, rischiano molto più dei colleghi maschi: alcune hanno rinunciato a lavorare. Alcune sono minacciate che verranno stuprate e filmate quindi con in più la condanna al “pubblico ludibrio”.

Mhoammed, alla fine del suo intervento, lancia un appello: «Faccio un accorato appello a tutta la comunità internazionale, e all’Italia in particolare che ancora ringrazio per il sostegno, di mobilitare e di aiutare i colleghi somali, uomini e donne, che stanno rischiando la loro vita per fa il loro mestiere con questo regime. Noi abbiamo rilasciato interviste in questi giorni, e abbiamo ricevuto tante telefonate di minacce che ci dicono che se interveniamo ancora sulla politica del nostro Paese “quando tornate, la pagate, voi e le vostre famiglie”. Abbiamo il problema che mogli, figli e mamme vengono minacciati in patria. Ci sentiamo come se avessimo arrecato un danno a loro denunciando i nostri diritti», ribadisce Mhoammed, con grande angoscia e mostrando l’incertezza sul loro futuro, se tornare o no.

Per questo gli impegni dei giornalisti italiani non devono mancare. Giuseppe Giulietti, storico leader di Articolo 21, propone di farsi sentire dalla Farnesina perché vengano rappresentate in Somalia le ragioni e le esigenze di questi colleghi, e in più propone che le strutture abbandonate dal sistema mediatico italiano, perché superate ma ancora funzionanti, possano essere donate ai giornalisti somali perché facciano dignitosamente il loro lavoro in Patria.

Ma soprattutto «di fronte a violenze e soprusi, i giornalisti somali non devono essere lasciati soli», sottolinea con forza Vincenzo Spampinato, fondatore e organizzatore di Ossigeno per l’informazione, organizzazione e portale italiani che da tempo lotta a sostengo di giornalisti che in Italia e nel mondo vengono minacciati e uccisi. «Il governo somalo – conclude – deve sì lottare contro chi minaccia il rispetto dei diritti, i terroristi di Al Shabaab, ma deve farlo soprattutto a partire dal rispetto dei diritti dei propri cittadini».


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