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Libera circolazione? Al contrario, l’Europa ostacolerà i “suoi” lavoratori

Uno Studio di Inca Cgil rivela che nel “Labour mobility package”, col pretesto di evitare frodi e abusi, saranno introdotti criteri restrittivi e penalizzanti di accesso alle prestazioni sociali da parte dei cittadini che emigrano per lavoro all’interno dell’Ue. Favorendo i paesi più ricchi

di Redazione

C’era una volta l’Europa della libera circolazione dei suoi cittadini, della lotta all’esclusione sociale e alla discriminazione, dell’accesso alla previdenza sociale per tutti i lavoratori, anche quelli provenienti da altri paesi membri, proprio perché cittadini europei. Quello che può sembrare l'incipit di una brutta storia, però, non è il frutto della fantasia di uno scrittore, quanto il rischio concreto che corre l'Ue se le intenzioni di alcuni paesi "ricchi" diventassero realtà.

A lanciare l’allarme è l’Osservatorio Inca Cgil per le politiche sociali in Europa in uno studio curato da Carlo Caldarini, direttore dell’osservatorio, sui possibili effetti dell’introduzione del Labour Mobility Package, il pacchetto di nuove misure sulla libera circolazione dei lavoratori incluso nel programma della Commissione europea guidata da Jean-Claude Juncker e annunciato in primavera.

Oggi i cittadini europei hanno il diritto di cercare lavoro in un altro paese Ue, lavorare senza bisogno di un permesso di lavoro, vivere in un altro paese Ue per motivi di lavoro e restarvi anche quando l’attività dovesse terminare. Non solo. I cittadini europei possono godere anche della parità di trattamento rispetto ai cittadini “nazionali” sia per il lavoro, ma anche per “qualsiasi altro beneficio sociale e fiscale”. Infine possono trasferire la copertura sanitaria e previdenziale verso il paese in cui si stabiliscono. Tutto questo potrebbe cambiare, stando a quanto si apprende in merito al pacchetto di misure su cui sta lavorando la Commissione. Sulla carta, il documento dovrebbe “costruire un mercato interno più recettivo e più equo nei confronti dei lavoratori mobili e migranti”, ma di fatto, spiega lo studio, si punta a introdurre “nuovi e piùrestrittivi criteri di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale che favoriranno paesi come la Germania e il Regno unito e che penalizzeranno sia i lavoratori mobili, sia i loro paesi di origine caratterizzati da sistemi economici, sociali e previdenziali più deboli rispetto a quelli dei paesi di destinazione”.

Cosa fa pensare che dentro il “Package” si nasconda un’inaspettata sorpresa? I primi segnali arrivano dalle posizioni espresse da tempo da alcuni paesi membri già chiamati in causa. Come quelle della lettera congiunta alla Presidenza Ue dell’aprile 2013 in cui Austria, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito affermavano che i “migranti provenienti da altri stati membri pesano sulle nostre società, causando dei costi insopportabili”. Migranti, tra cui anche i cittadini europei, che in “numero significativo” accedono ai “benefici sociali nei paesi ospitanti – aggiunge la lettera -, spesso senza un vero e proprio diritto, mettendo a dura prova i sistemi di protezione sociale nei paesi ospitanti”. Nonostante la stessa Commissione europea sia intervenuta per sconfessare la lettera affermando che “nessun dato conferma che questi cittadini siano dei profittatori”, spiega Caldarini, nel Labour Mobility Package si va praticamente in questa direzione, mascherata dalla necessitàdi prevenire“frodi e abusi”.

L'intervento della Commissione, però, non ha distratto i governi dai loro intenti iniziali e le proposte di revisione delle regole comunitarie in questo ambito hanno continuato a circolare. Secondo Caldarini, lo dimostrano le linee guida sul Labour Mobility Package presentate dalla commissaria europea Marianne Thyssen lo scorso aprile, ma è il vice presidente della Commissione europea, Frans Timmermans, a fugare ogni dubbio affermando che "l'accesso al mercato del lavoro non significa un accesso automatico alla previdenza sociale".

Sul documento, la Commissione sta ancora lavorando ed ha affidato a tre istituti di ricerca l'incarico di valutare i "costi amministrativi e di adeguamento alla normativa", ma le ipotesi di revisione mostrano che a pagare il prezzo più caro èil lavoratore immigrato all'interno della Ue o lo stesso il paese di provenienza. Nel caso degli assegni familiari, ad esempio, il lavoratore immigrato con moglie e figli nel paese di provenienza potrebbe vedersi riconosciute prestazioni familiari di importo inferiore ai cittadini nazionali a parità di contributi perché commisurate al tenore di vita del paese di residenza della famiglia o che, a parità di prestazioni, una parte venga pagata dal paese di provenienza, nonostante i contributi siano stati versati altrove. Rischi simili per l'indennità di disoccupazione, dove c'è il rischio che il lavoratore immigrato possa percepire un'indennità calcolata sul tenore di vita del paese di provenienza, generalmente più basso, fino alla concreta possibilità in alcuni casi di non ricevere proprio nulla.

Numeri alla mano, però, l'applicazione di tali restrizioni avrebbe "soprattutto un effetto mediatico". Secondo un rapporto della Commissione europea, infatti, la mobilità costa più ai paesi di partenza che a quelli di destinazione dove il lavoratore immigrato versa imposte e contributi. Lo stesso studio, inoltre, dimostra come tra i beneficiari delle prestazioni sociali, gli stranieri rappresentino percentuali risibili (1 per cento in Austria, meno del 5 in Germania).

Ma non solo. Uno studio dello University College di Londra ha dimostrato come il contributo fiscale netto dei cittadini europei sia superiore a quello degli stessi inglesi. Anche l'Ocse, nel rapporto sulle migrazioni internazionali del 2013, afferma che la differenza tra i contributi sociali e fiscali versati dagli immigrati e le prestazioni da questi percepite è sempre a vantaggio dei paesi ospitanti e a discapito dei migranti. "Il mito dell'immigrazione che approfitta della generosità dei sistemi sociali dei paesi ricchi – conclude lo studio – è ampiamente smentito dalle statistiche internazionali". Un mito che rischia, però, di portare a riforme che, secondo l’Osservatorio Inca, "mettono in discussione i pilastri della libera circolazione delle persone e del coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale. E quindi dell'intero progetto europeo".

da redattoresociale.it


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