Economia & Impresa sociale 

Popolare di Vicenza: vocazione mutualistica addio

Ci vogliono anni per costruire la fiducia, ma per dilapidarla basta un attimo. Potrebbe essere il caso della Banca Popolare di Vicenza, accusata di falso in bilancio per non aver inserito i crediti deteriorati nella voce delle sofferenze e per aver concesso prestiti irregolari ai clienti della banca allo scopo di far comprare loro azioni dell’istituto stesso

di Monica Straniero

Solo qualche giorno fa l’ex governatore della Bce Jean-Claude Trichet aveva scritto che le banche poggiano sulla fiducia. Ci vogliono anni per costruire la fiducia, ma per dilapidarla basta un attimo. Potrebbe essere il caso della Banca Popolare di Vicenza, accusata di falso in bilancio per non aver inserito i crediti deteriorati nella voce delle sofferenze e per aver concesso prestiti irregolari ai clienti della banca allo scopo di far comprare loro azioni dell’istituto stesso. E tutto questo per finanziare gli aumenti di capitale e continuare a distribuire dividendi ai soci e bonus e premi al management.

Insomma la storia si ripete. E ancora una volta, dopo Banca dell’Etruria, lo scandalo finanziario non coinvolge le cosiddette too big too fail ma una banca che si vorrebbe ancora fedele ad una tradizione di valori con il territorio. Parliamo delle popolari che un numero di sportelli di poco inferiore ai 9500, un milione e più di associati e 12 milioni di clienti, rappresentano il 28% del sistema bancario italiano. Tuttavia la crisi economica ha lasciato segni evidenti anche nelle maggiori banche popolari. In anni nei quali le banche in generale hanno intensificato il credit crunch verso le imprese, questi istituti hanno continuato a erogare prestiti. Ma come Banca Popolare di Vicenza hanno imbarcato più sofferenze.

Non a caso nell’ambito dello Srep ( Supervisory review and evaluation process), un acronimo dietro cui si nasconde un’analisi dettagliata dei rischi rilevanti a cui le banche sono esposte e le strategie messe in atto per controllarli, la Bce ha collocato Pop Venezia e Veneto Banca in quarta fascia. Ossia la classe che raggruppa quegli istituti che presentano un rischio elevato e per le quali scatta la richiesta di varare nuove operazioni di rafforzamento patrimoniale. E tutto questo mentre il Supervisory Board della Banca Centrale fa sapere alle 120 maggiori banche di Eurolandia, comprese le dieci maggiori banche popolari italiane, di voler introdurre ulteriori e significativi aumenti sui requisiti di capitale. Una misura aggiuntiva che secondo Bankitalia, nella presenta congiuntura potrebbe mettere a repentaglio la ripresa economica e favorire una nuova stretta creditizia.

Da una parte la Banca Centrale che ha evidenziato per questa tipologia di banche un assetto patrimoniale eccessivamente ridotto perché possano reggere in futuro una situazione avversa dei mercati finanziari. Dall’altra la riforma voluta da Renzi che ha imposto alle banche popolari con attivi superiori a 8 miliardi di euro di trasformarsi in Spa al fine di creare soggetti bancari in grado di gestire aumenti di capitali con governance snelle e al riparo da possibili rischi di clientelismo. Quest’insieme di sfide devono aver messo a dura prova il forte senso di responsabilità sociale verso le comunità servite che hanno sempre reso le banche popolari diverse dalle banche commerciali.

Tuttavia non siamo più all’epoca della società solidale di Luigi Luzzatti, economista e fondatore della Popolare di Milano che vedeva in questi istituti la possibilità di diffondere la prosperità tra le famiglie, gli operai, tanti lavoratori che non avevano ingenti patrimoni. Non che i segnali fossero mancati, in questi ultimi anni le banche popolari di maggiori dimensioni si sono trovate costrette a confrontarsi con un mercato sempre più globale che avrebbe sostanzialmente compromesso lo spirito mutualistico originario di tali istituti. Ma se non possiamo prevedere fino a che punto la Riforma Renzi contribuirà a recidere i legami che le banche popolari hanno da sempre con i diversi territori, si potrebbe tentare di cambiare prospettiva e prendere atto che le popolari, a prescindere dalla dimensione della singola banca, cercano di fare quello che fanno tutte le banche: generare profitti.

Piuttosto è al sistema bancario nel suo complesso che serve un cambiamento radicale. Lo chiede a gran voce addirittura il G30, un’organizzazione internazionale senza scopi di lucro composta da accademici e da personalità di alto livello del mondo della finanza e della banca. Il Gruppo, ha pubblicato a luglio 2015 un dossier dal titolo, “Banking Conduct and Culture: a Call for Sustained and Comprehensive Reform”. Il report dopo aver analizzato le lacune degli assetti societari delle principali banche mondiali è arrivata alla conclusione che i regolatori e i discorsi esaltanti hanno fatto ben poco per convincere gli istituti ad adottare comportamenti eticamente sostenibili nel lungo periodo. Così il documento lancia un accorato appello direttamente alle banche affinché siano loro stesse a promuovere una nuova cultura bancaria, in grado ripristinare la reputazione delle banche e ricreare quel clima di fiducia verso i risparmiatori e gli investitori. Un’utopia? Se l’invito a introdurre un sistema di valori arriva da un’entità la cui natura è stata spesso assimilata a quella di una lobby di interessi finanziari privati, sarebbe il caso per le banche di cominciare a rifletterci molto seriamente.


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