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Coworking: funziona davvero?

Dialogo con il porofessor Adam Arvidsson che sabato sarà ospite della Collaborative Week: «La possibilità di fare network è ottima, ma spesso c'è anche tanta retorica. I guadagni? Partite Iva da 1.500/2.000 euro lordi»

di Redazione

Ormai sono qualcosa di più che un luogo di lavoro, sono quasi diventati uno stile di vita. Una ricerca datata 2014 stimava che i co-working in italia sono circa 200. «Ma in questi mesi il numero è senz’altro cresciuto», spiega il sociologo della facoltà di scienza politiche all’università statale di Milano Adam Arvidsson che insieme a Lugi Corvo, professore in Social Enterpreunership all’università Tor Vergata di Roma interverranno al dibattito “Coworking: tra organizzazione del lavoro e sostenibilità economica e sociale” che si terrà sabato nel l’ambito della Collaborative Week. Il Comune di Milano è senz’altro una delle amministrazioni più attive nella promozione di coworking tanto da aver promosso un albo comunale per iniziativa in particolare dell’assessore alle Politiche per il lavoro, Sviluppo economico, università e ricerca Cristina Tajani.

Professor Ardvisson è un modello che funziona quello dei coworking?
Ni

In che senso?
Generalmente si tratta di persone fra con un’età inferiore o di poco superiore ai 30 anni supportati da un forte senso identitario, quasi un’ideologia: quella di mettersi in proprio, ma di farlo per cambiare e migliorare il mondo. E per farlo scelgono luoghi di lavoro dove la possibilità di intessere relazioni è molto alta e che permettono di imparare a gestire e valorizzare la propria reputazione. In un certo senso siamo dentro la retorica dei makers: di chi si sente un po’ l’avanguardia di una nuova classe dirigente. Ma poi c’è l’altra faccia della medaglia.

Ovvero?
La maggior parte di loro sono partite iva da 1.500/2mila euro lordi. Si tratta più o meno di 800 euro netti. Una cifra che non permette di vivere in una città come Milano.

Che tipo di professionalità si incontrano in questi contesti?
In tanti per esempio sono laureati in architettura, ma la maggior parte di occupa di comunicazione partecipando a campagne, progetti di e-commerce o progettazione di brand. Spesso però si tratta di network costituiti da professionalità non altissime, facilmente “sostituibili” in un mercato che su questi profili ha un’offerta decisamente larga. Poi è vero ci sono anche startupper che si occupano di hi-tech, medicina o biotecnologie


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