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Ong e costi eccessivi, e se fosse un problema di comunicazione?

Dopo l'articolo di Vita Magazine sull'efficienza delle organizzazioni non governative e i costi di struttura e di raccolta fondi, il direttore del Ciai Palmerini lancia un altro sasso nello stagno: e se il problema non fossero le spese, ma la mancanza di comunicazione dei risultati ottenuti?

di Gabriella Meroni

L'articolo dedicato ai costi del personale e della raccolta fondi delle ong ha suscitato molto interesse e molte reazioni tra gli addetti ai lavori. Anche il Ciai, organizzazione con una lunga storia e una doppia veste, ente autorizzato all'adozione internazionale ma anche ong (tra l'altro tra le prime dieci quanto a contributi del 5 per mille, e qui facciamo ammenda), interviene nel dibattito sul concetto di efficienza di un'organizzazione non profit con il direttore Paolo Palmerini. Che non rinuncia innanzitutto a un po' di ironia sull'attrice che, con le proprie polemiche dimissioni, ha scatenato la polemica sugli stipendi troppo alti dei dirigenti delle ong: «Nella profonda notte della fiducia verso il terzo settore, meno male che gli occhi luminosi di Angelina Jolie gettano bianchi sassolini di provocazione che brillano nell'oscurità. Persino noi, semplici operai di settore, senza verbo e senza Oscar, possiamo incamminarci lungo la via così illuminata…».
Palmerini, scherzi a parte, come si può veramente valutare il lavoro di un ente non profit?
Si tratta davvero di un compito complesso. Da qualunque parte si prenda il discorso si rischia sempre di fornire una visione troppo parziale e influenzata da pregiudizi o vere e proprie superstizioni. Tipo quello che meno si spende per la raccolta fondi e meglio è, o quello che chi lavora per il non profit deve essere pagato meno di chi lavora nel profit. Per non parlare poi dei famigerati “costi di struttura”, il mostro di Lochness del settore: tutti ne parlano ma nessuno li ha mai visti.
Ma non siete voi i primi che vi preoccupate di far sapere a tutti quanto poco spendete per questa voce di bilancio?
E' vero, sono gli enti stessi che hanno la prima e maggiore responsabilità nell’aver promosso un’immagine di se’ legata ad un’etica puritana nella quale spendere è male a priori, gratis vuol dire “meglio” e di soldi non sta bene parlare (tranne quando li si chiedono). In questo contesto chi lavora nel settore deve essere pagato poco, perché altrimenti c’è il rischio che lo faccia solo per i soldi.
Ma è davvero così? Chi lavora nel settore pensa davvero queste cose?
Non credo, al di la della retorica di sistema, che un qualunque dirigente di una qualunque realtà non profit abbia mai pensato che sia meglio pagare poco le persone o spendere poco per la raccolta fondi. Se io sapessi che spendendo 10 in raccolta fondi ottengo 100 (oneri raccolta fondi al 10%), quindi 90 per le mie attività, e che spendendo 20 ottengo 150 (oneri raccolta fondi al 13%), quindi 130 per le mie attività, preferirei la seconda ipotesi, perché avrei più soldi per le attività, anche se in termini relativi l’incidenza della raccolta fondi sarebbe più alta.
Qual è il punto, allora?
Il punto è che dovremmo iniziare a raccontare (e prima ancora a misurare) quello che le organizzazioni ottengono, l’impatto che producono. Sapere quanto spende un’organizzazione per la raccolta fondi non mi dice niente su quello che ha ottenuto con i soldi che le sono rimasti, che è invece la cosa più importante perché vuol dire andare a vedere se e quanto un’organizzazione sta realizzando la propria mission. Certo, è più facile attirare l’attenzione sui costi di struttura, apparentemente facili da misurare, ma in realtà difficili da confinare in categorie ben definite e con una certa tendenza a sgusciare via tra le poste di bilancio andando a finire dentro ai costi dei progetti. Il risultato di questa ossessione sui costi di struttura e del personale è che nessuno si interessa più al resto, alle mission e al loro raggiungimento.
Anche qui, non sarà che la comunicazione di questo elemento è carente da parte vostra?
Dobbiamo cambiare il nostro modo di raccontarci. La nostra dialettica è orientata ad una narrazione nata dal “fare del bene” ma che poi si è fermata spesso al solo “fare”. E’ tempo di passare a raccontare il “fare bene” e sono gli esperti del settore, chi opera e chi racconta, che si dovrebbero mettere in gioco in prima persona, avendo il coraggio di cambiare.
Come?
Il cambiamento potrebbe essere a portata di mano. Si tratta di una ricetta semplice dagli ingredienti facilmente accessibili: raccontare l’impatto ottenuto, oltre alle attività fatte; raccontare gli errori commessi, oltre ai successi ottenuti; raccontare costi e ricavi, senza pudori ne’ falsi miti. Se avessimo davvero la forza e il coraggio di cambiare, potremmo scoprire che in fondo alla notte si accende una luce. Con grande sorpresa ci accorgeremmo magari che la luce questa volta non sono gli occhi di una stella del cinema, per quanto luminosa, ma una piccola fiammella di quella antica fiducia, mai spenta, che faticosamente saremo riusciti a riconquistare.


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