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Il web dei criceti: condividono, ma non leggono

Lo spinoso caso della "native advertising": investimenti, libri, brochure, convegni, marketing. E poi? Poi, tranne i soliti casi virtuosi, il nulla. Scatta allora la colpevolizzazione degli utenti web: condividono ma non leggono, si dice. E se, invece, al fondo del preannunciato disastro di molte retoriche "2.0" stesse una precaria comprensione di che cos'è un atto di lettura e una sopravvalutazione delle metriche per stabilire gli indici di permanenza e gradimento su una pagina e su un articolo?

di Marco Dotti

Quante parole in un minuto? Quanti minuti per leggere un articolo? Nessun problema. Esistono decine di calcolatori online che vi daranno una risposta. Ma in che cosa consista l’atto di lettura e quanto lettura e comprensione convergano o piuttosto si consumino dentro quell’atto quasi meccanico che chiamiamo “condivisione” rimane per molti un mistero.

Primo paradosso: la lettura come quantità di tempo speso


Al “word count” dei programmi di videoscrittura è meno semplice, ma non troppo arduo aggiungere un calcolatore di “tempo per parola”. Usandone uno tra i più comuni, abbiamo la possibilità di conoscere in forma rudimentale, ma sul lungo periodo efficace quanto mediamente impiega o impiegherebbe un essere umano normodotato per terminare un articolo composto da un numero “X” di parole, o da un numero “Xy” di caratteri, spazi bianchi e segni diacritici inclusi. Il primo indice, particolarmente noto ai cultori delle tecniche di lettura veloce, è indicato dalla sigla WPM, che sta per “words per minute”, mentre il secondo è indicato dalla sigla CPMn, che sta per “characters per minute”.

Questi sistemi di misura rientrano nella categoria delle cosiddette “performance metrics” e a pieno titolo possiamo ascriverli allo specifico dell’economia dell’attenzione. Anzi, in certi casi costituiscono uno dei principali criteri di misurazione d’impatto di un prodotto culturale sui “livelli attenzionali” degli utenti.
Pensiamo a un articolo pubblicato su una rivista o su un quotidiano online. Sulla carta, off line, il “tempo di lettura” sempre più spesso indicato in calce all’articolo – “tempo di lettura necessario per questo articolo 5 minuti” – suona come un inutile e irrispettoso consiglio per lettori che si presumono svogliati.

Come quando entrate in un negozio, passando un dispositivo antitaccheggio siete trattati come potenziali ladri, così i (pochi) lettori rimasti vengono trattati come presunti imbecilli. Che mondo bizzarro, il nostro.


Ma on line le cose cambiano. On line è possibile misurare il tempo di permanenza del lettore su un articolo o su una pagina. Il tempo di permanenza su una pagina o su un articolo, osservano oramai all’unisono gli esperti, è direttamente proporzionale alla possibilità che il lettore torni sul sito che ospitava quella pagina o quell’articolo e, magari, lo condivida. Basta questo per dire “lettura”? Certo che no. Ma anche qui: di quale lettura parliamo?

ll problema per gli allegri cultori della rete è ben noto ma, forse, non adeguatamente tematizzato: non c’è alcuna correlazioni tra gli articoli che la gente condivide sui social network e la lettura effettiva di quegli articoli. Ecco il "grande inganno del web 2.0", di cui era stato fin troppo facile profeta il compianto Fabio Metitieri.

Se questo è vero – e i dati lo confermano – allora anche il tempo speso dinanzi a un articolo o a una pagina non è necessariamente tempo che genera un atto di lettura. È, casomai, una porzione di attenzione o di scorrimento disattento dedicati a quella pagina. Infatti, i più smaliziati e franchi non parlano più di minuti di lettura ma di “attention minutes” [Fonte: http://blog.upworthy.com/post/75795679502/what-uniques-and-pageviews-leave-out-and-why ].

Secondo paradosso: la lettura senza qualità

A ben vedere, siamo tornati al punto di partenza. Proprio per questo, Tony Haile, amministratore delegato di Chartbeat, società che si occupa di analisi e gestione di dati, titolava preoccupato “What You Think You Know About the Web Is Wrong” un suo articolo pubblicato il 9 marzo 2014 sul Time.

"Se sei un lettore medio, avrò la tua attenzione per quindici secondi”, scriveva Haile. L’ossessione del tempo faceva così il suo ingresso anche nelle stanze del new marketing che, fino al giorno prima, pretendeva di servirsene a suo puro comodo.

Ci stiamo sbagliando sul web, confondiamo ciò che le persone cliccano con ciò che le persone leggono. Confondiamo condivisione e lettura. Corriamo verso nuove forme di pubblicità, ripetendo errori del passato.

Tony Haile, “What You Think You Know About the Web Is Wrong”, Time, 9 marzo 2014.

La nuova forma di pubblicità, messa in scacco dall’errore di prendere lucciole per lanterne o, meglio, “sharing for reading”, è la native advertising. Una forma di pubblicità contestuale particolarmente interessante, potenzialmente innovativa. Anzi: ancor più interessante e innovativa, là dove fallisce e svela, in qualche modo, gli errori di sistema che ne stanno alla base. La native advertising rischia di diventare l’errore fatale dell'information economy, ossia quel sistema definito da un particolare regime di scarsità. Se l'economia opera in regime di scarsità di risorse, materie e beni materiali, l'information economy opera in regime di scarsità di attenzione. Non i contenuti, ma l'attenzione è il bene più scarso. Siamo in pieno sovraccarico di contenuti, l'overload informativo preconizzato decenni or sono da Alvin Toffler. Da qui, la nascita di una nuova disciplina, l'economia dell'attenzione, sulla quale ci soffermeremo in altri articoli.

Anche il modello della native advertising si basa su basa su un presupposto tipico dell'attention economy: più attenzione, più comprensione.

Ma è la qualità dell’attenzione, come spiegava Borges, a fare la differenza tra un lettore e chi lettore non è. Detto altrimenti, la quantità di letture non fa il lettore. Così come Bouvard e Pécuchet di Flaubert non sono degli eruditi, ma la loro caricatura.

Nella sua struttura, la native advertising è una pubblicità contestuale (native) che, seppur dichiarata, non interrope l’attenzione dell’utente/lettore, ma la cattura, diventando parte del, e assumendo forma di contenuto.

Il web dei criceti: condividono senza leggere


La condivisione senza lettura diventa quindi un problema – e qui si capiscono le parole allarmate di Haile – per chi punta a catturare un’attenzione che, improvvisamente, si scopre non esserci mai stata anche quando le “metriche” di tempo per pagina, articolo e parola sembrano dire tutt’altro. Siamo davanti a un terzo paradosso o, meglio, a un paradosso apparente.

Solo la mancata comprensione di ciò un atto di lettura è nella sua struttura complessa e profonda può portare su questa strada.

Chi considera la lettura alla stregua di una performance, come quella dei criceti sulla loro ruota fatta solo di produzione e consumo, mai di reale attenzione, non può certo attendersi altro. Né dal mezzo, né dal messaggio. Tanto meno dai lettori.


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