Media, Arte, Cultura

Le relazioni pericolose tra media e asilo politico

Il rifugiato è ormai definito dai media come “colui che scappa dalla guerra”. Per la Convenzione di Ginevra, invece, la definizione è “chiunque nel giustificato timore d’essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”.

di Marco Ehlardo

Di recente ho tenuto un seminario su migrazioni e asilo per giornalisti, organizzato dall’Ordine dei Giornalisti della Campania e dal CSV Napoli.

Da quest’incontro sono uscito con una conferma e una sorpresa.

La conferma è stata il livello di conoscenza ancora decisamente insufficiente del tema delle migrazioni forzate. Ovvio che se la conoscenza del tema da parte dei media è limitata, ancor più lo diviene quella dell’opinione pubblica, che dai media si informano o dovrebbero farlo.

La sorpresa è stata l’interesse forte dei partecipanti ad approfondire concretamente tutto quanto legato al fenomeno dei richiedenti asilo e rifugiati, il che mi ha lasciato quantomeno maggior fiducia nel futuro.

È chiaro che un giornalista non specializzato non possa e non debba avere una conoscenza approfondita di ogni tema, ma almeno alcuni elementi base deve procurarseli quando ne scrive, per evitare di dare informazioni quantomeno imprecise, che poi hanno un impatto serio sull’opinione che i cittadini si fanno su quel tema.

Un esempio semplice è la cosiddetta “emergenza profughi” di cui si parla da mesi. Il profugo è una “persona costretta ad abbandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a eventi bellici, a persecuzioni politiche o razziali, oppure a cataclismi come eruzioni vulcaniche, terremoti, alluvioni, ecc.” (Treccani); dunque il termine “profugo” è generico, e non descrive sempre correttamente le motivazioni per cui i migranti vengono a cercare protezione. Il profugo, ad esempio, può essere anche “interno”, ossia restare nel suo Paese in una zona diversa da quella usuale di residenza, a causa ad esempio di un evento naturale. Per un rifugiato ciò sarebbe ovviamente molto difficile e quantomeno pericoloso.

Ho fatto loro un esempio, magari stupido ma calzante. Se un giorno il Vesuvio (corna facendo) decidesse di eruttare, molti Napoletani delle zone più a rischio sarebbero trasferiti in altre parti d’Italia. Saremmo quindi dei profughi interni, ma sfido chiunque a dire che saremmo “perseguitati” dal Vesuvio. La condizione di un rifugiato è dunque ben diversa e più specifica.

Comprendo che può sembrare un tecnicismo, e se sento parlare di profughi da un cittadino comune non posso prendermela. Ma da chi fa un lavoro di informazione mi aspetto maggiore precisione.

Analogo discorso per la questione della religione, che può essere certamente un elemento di discriminazione e persecuzione, ma l’enfasi con cui viene trattata ultimamente rischia di creare ulteriori distorsioni.

Mi è capitato di recente, ad una presentazione del mio libro, di ascoltare un richiedente asilo che raccontava di essere stato in Tribunale per il ricorso per ottenere la protezione internazionale, e che, appena sedutosi davanti al giudice, si sia sentito chiedere come prima cosa: “senti, ma tu sei musulmano?”. Così, dandogli del tu; d’altronde perché dargli del lei se è nero?

Ma, soprattutto, il sottinteso che rischia di passare è il seguente: se sei cristiano, probabilmente sei perseguitato, mentre se sei musulmano chi ci dice che tu non sia qui per fare attentati?

Che si sentano domande del genere persino in un’aula di Tribunale fa capire che effetto può avere una comunicazione scorretta e, spesso, paranoica.

Ma la maggiore distorsione del tema che ho riscontrato da molto tempo, che è decisamente molto più grave, è la stretta connessione che viene fatta tra i rifugiati e la guerra.

Il rifugiato è ormai definito dai media (e quindi dall’opinione pubblica) come “colui che scappa dalla guerra”.

Per la Convenzione di Ginevra, invece, la definizione è “chiunque nel giustificato timore d’essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”.

Dunque lo stato di guerra, interna o esterna al Paese che sia, non è un requisito essenziale. Anzi.

Ci sono Paesi, ad esempio, che da decenni non fanno una guerra, che sono magari in ottimi rapporti con i Paesi vicini, e che si limitano “semplicemente” a sterminare e perseguitare i propri cittadini.

O Paesi in cui l’omosessualità è un reato punito con la pena di morte.

Anche questa può sembrare una questione di lana caprina, ma non lo è affatto. Per almeno due motivi.

Il primo è che l’associazione rifugiato-guerra distorce pesantemente la percezione che il cittadino ha della questione. Così facendo, sta passando ormai il concetto che va bene il siriano, va bene l’iracheno, si capisce già meno l’afghano, ma l’eritreo perché dobbiamo accoglierlo? Per inciso in Eritrea c’è una dittatura dove, ad esempio, il servizio militare oltre che obbligatorio può avere una durata indefinita, e per giunta con una paga inferiore alla soglia di povertà di quel Paese.

Il secondo è che si rischia di fare sponda a chi sta cercando di stringere il più possibile le maglie sulla questione del diritto di asilo.

Si sta passando ormai dal concetto di Paesi sicuri (quelli in cui si ritiene che il rimpatrio di un migrante, per il quale non si riscontri una persecuzione individuale, non ne metta a rischio la sicurezza) a quello, più ristretto, di Paesi insicuri, ossia un limitato numero di Paesi dove il rimpatrio è sconsigliato, mentre per tutti gli altri si può procedere senza problemi e senza un’approfondita analisi dei motivi della migrazione/fuga.

La situazione diventa ancora più grave con l’avvio degli hotspot (di cui ho già scritto qui).

Le numerose denunce di varie organizzazioni (tra cui ASGI e Medici Senza Frontiere) fanno temere che, in queste strutture, si voglia tendere proprio a questa distinzione grossolana tra Paesi sicuri ed insicuri ed a rimpatri indiscriminati, così da riscontrarsi “la non tutela del Diritto di Asilo come Diritto universale ed esercitabile a titolo individuale così come sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dalla Convenzione di Ginevra”.

Dunque, come sempre, finisce che le parole possono fare più vittime delle armi. Per questo è fondamentale che chi con le parole ci lavora ne faccia un uso accorto.

Ergo basta col “rifugiato che scappa dalla guerra” (e analogamente con la connessione asilo politico/perseguitato politico, che esiste ma è anch’essa parziale).

Con un appello finale all’Ordine dei Giornalisti ed alle organizzazioni di tutela.

Al primo di fare più formazione su questi temi, e soprattutto di fare più informazione su quanto succede nel mondo, perché la gente capisca cosa succede in tanti Paesi e perché tante persone siano costrette a fuggire.

Alle seconde: vanno bene le campagne per raccogliere fondi (giuste e necessarie, figuriamoci). Un po’ meno quando si focalizzano anch'esse solamente sul rifugiato che scappa dalla guerra.

Ma, piuttosto, a quando una campagna seria che spieghi seriamente e dettagliatamente alla cittadinanza (ed ai media) chi sono i rifugiati e le motivazioni che li spingono a fuggire dalle loro terre ed a cercare protezione da noi?


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