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Twin Peaks, la madre di tutte le serie

È uscita l’attesissima terza stagione, a ben 27 anni di distanza da quell’8 aprile 1990 che ha fatto la storia delle serie televisive. Daniela Cardini, sulla sua rubrica “Long Tv” sul numero del magazine in edicola, affronta quella che definisce «una religione, una serie anomala, uno spartiacque che divide l’ingenua preistoria dei telefilm dalla complessità della Grande serialità contemporanea»

di Daniela Cardini

O si ama o si odia. Non ci sono mezze misure quando si parla di Twin Peaks, e in questi giorni ne hanno parlato in tanti: il 21 maggio su Showtime (il 26 maggio in Italia su Sky Atlantic) è uscita l’attesissima terza stagione, a ben 27 anni di distanza da quell’8 aprile 1990 che ha fatto la storia delle serialità televisiva. Quel giorno debuttava sul network americano ABC una serie stranissima, costruita intorno alle visioni geniali di un regista-divo, David Lynch, che aveva in odio il mezzo televisivo ma che riusciva ad usarlo come nessuno prim di lui (e anche dopo, a dire il vero).


Twin Peaks è una fittizia cittadina montana nello Stato di Washington, a cinque miglia dal confine tra Stati Uniti e Canada

Commentare Twin Peaks senza scontentare qualcuno è impossibile. Ci si sente sovrastati non solo dalla smisurata aneddotica che la accompagna, ulteriormente arricchita dalla nuova stagione, ma dall’integralismo di spettatori- seguaci pronti a sottolineare la minima inesattezza. Perché Twin Peaks è una religione, una serie anomala, uno spartiacque che divide l’ingenua preistoria dei telefilm dalla complessità della Grande serialità contemporanea. Che piaccia o no, da qualunque parte la si affronti si ha a che fare con un superlativo, una primogenitura, il capovolgimento e la frantumazione di un limite.

Insomma, “TP” (come la chiamano affettuosamente i suoi fan) è un meraviglioso ossimoro.

È stata la prima serie televisiva firmata da un regista di cinema, un autore con la A maiuscola. Grazie a Lynch, negli anni Novanta il cinema d’autore superava la voragine culturale che lo separava dalla trivialità della televisione
per dar vita ad un prodotto ostico, ad una narrazione antitelevisiva fatta di pause, incongruenze, frizioni di genere. A dire il vero, un certo Alfred Hitchcock, un paio di decenni prima, aveva già firmato una famosa serie antologica (“Alfred Hitchcock presenta”, trasmessa dalla CBS a partire dal 1955). Ma le storie di Hitchcock aderivano al ritmo narrativo della tv. Le storie di Lynch, invece, assolutamente no.

Twin Peaks è stato un grande successo di critica ma un parziale successo di ascolti: dopo le prime otto puntate, acclamate in tutto il mondo grazie anche ad una sapiente strategia di marketing, la rete in tutta fretta commissionò a Lynch e a Mark Frost (la vera mente televisiva del team) altre 22 puntate: ma le sperimentazioni narrative della seconda stagione portarono rapidamente il pubblico a disaffezionarsi a nani ballerini, donne che parlavano con i tronchi e strani detective ghiotti di torta di ciliegie.

Ma (altra contraddizione) ai bassi ascolti corrispose la nascita di uno dei più vasti e longevi fenomeni di fandom televisivo di tutti i tempi, indissolubilmente legato alla parallela diffusione della Rete in quegli anni: i fan sfegatati
si ritrovavano nei primi forum online a scambiarsi opinioni e a cercare soluzioni agli enigmi più ostici — e ciò accadeva almeno vent’anni prima dell’esplosione dei commenti alle serie che oggi sono diventati prassi quotidiana sui social network.



E che dire della musica? L’immortale melodia firmata da Angelo Badalamenti mandò in soffitta in un paiodi minuti le sigle banali e spensierate dei telefilm degli anni Settanta e Ottanta, modulando un equilibrio sonoro mirabile tra sentimento e orrore sul tema portante della serie, il doppio. Da allora la componente musicale è diventata fondamentale nelle serie cosiddette “di qualità”.

Questo ritorno dopo quasi tre decenni non fa che ribadire la diversità di “TP”, evidenziandone quasi con violenza l’alterità rispetto alla serialità contemporanea e, al tempo stesso, rimarcando la fedeltà al proprio codice genetico. Come trent’anni fa, Twin Peaks è al centro di una spettacolare operazione di marketing: è una serie-brand acclamata ancor prima della sua uscita, capace di generare un’attesa che poco o nulla ha a che fare con gli effettivi risultati di ascolto.


Dale Cooper, l’agente speciale dell’Fbi che arriva a Twin Peaks per indagare sull’omicidio di Laura Palmer. Interpretato da Kyle MacLachlan

Per le reti che la trasmettono è il viatico per un prestigioso posizionamento, e se il pubblico non la premierà, pazienza: il risultato d’immagine è già stato raggiunto.

L’anteprima delle prime due puntate al Festival di Cannes è stata salutata con cinque minuti di standing ovation. Convegni celebrativi e giornate di studio organizzate da studiosi-fan sono fioriti un po’ ovunque. E come trent’anni fa, Lynch si è fatto beffe delle regole e delle mode, confezionando un lunghissimo film che ha tagliato in 18 episodi solo al montaggio, non in fase di sceneggiatura. Come nelle prime due stagioni, le citazioni artistiche sono talmente numerose da far parlare alcuni osservatori di

una vera e propria “installazione”. Il senso ultimo di questo ritorno, forse, sta proprio qui: nella personalità complessa e straordinaria di un visionario che si serve dei media mainstream come forme d’arte.

Il suo Twin Peaks di trent’anni fa ha superato il limite fra cinema e televisione; il suo Twin Peaks di oggi ha alzato l’asticella ben oltre le questioni della qualità, della “cinematic television”, della complessità: ha creato la prima serie tv d’arte. Però tra le mille voci autorevoli che si sono levate per commentare, venerare o stroncare il ritorno di Twin Peaks, quella che vorrei veramente ascoltare purtroppo non c’è più. Chissà cosa avrebbe pensato David Foster Wallace di questo ultimo Lynch. Chissà se avrebbe detto ancora, come nello splendido saggio “David Lynch non perde la testa” del 1997: «A Quentin Tarantino interessa guardare uno a cui stanno tagliando un orecchio; a David Lynch interessa l’orecchio».

@neureologico


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