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Profughi, la generosità surreale di chi non ha più nulla

Quinta puntata dal viaggio della nostra giornalista nel campo di Diavata, a Salonicco in Grecia: «Non ero mai stata accerchiata da tanta disperazione in vita mia. Per la prima volta da quando sono qui sento fortissima la nostalgia di casa. Del mio mondo, di quel mondo che in qualche modo ci protegge sempre»

di Paolo Strocchio

«Vi assomigliate! Avete lo stesso sorriso! Portala con te in Italia e dì che è tua figlia. È brava, mi aiuta in casa. Ed è anche un’ottima studente. Hai sentito come parla bene l’inglese? L'ha imparato qui al campo, la mattina, quando va a scuola». Poi mi abbraccia forte. La donna che mi ha appena chiesto di portare via con me sua figlia ha quarant'anni e arriva dal Kuwait. Sua sorella vive in Canada e vorrebbero raggiungerla, assieme al marito e ai suoi due figli. Ma la paura di non farcela è tanta, e quando la paura diventa disperazione ci si ritrova disposti a tutto. Anche a rinunciare alla propria figlia di undici anni, che nel frattempo mi sorride e mi dice che la collana che indosso è bellissima.

La tentazione di togliermela e mettergliela al collo è grandissima, ma mi tornano violentemente in mente le parole del coordinatore della Luna di Vasilika: «Non puoi fare un regalo a un rifugiato se non puoi fare la stessa cosa anche con tutti gli altri».

Provo ad allontanarmi, ma quella madre disperata non si arrende.

Chiede alla figlia di portare fuori tre sedie e decide di prepararmi il caffè. Vorrei dirle che non lo prendo mai, perché mi agita, ma non ne ho il cuore. E così, senza nemmeno accorgermene, mi ritrovo con una tazzina in mano a sorseggiare un caffè in un contesto surreale, davanti a una donna che continua a chiedermi di portare in Italia sua figlia.

Quella stessa figlia che con una disinvoltura da adulta si avvicina, mi dà un buffetto sulla guancia e mi offre semi di zucca.

Non ero mai stata accerchiata da tanta disperazione in vita mia. Per la prima volta da quando sono qui sento fortissima la nostalgia di casa. Del mio mondo, di quel mondo che in qualche modo ci protegge sempre perché ci conosciamo bene.

Me ne vergogno quasi, ma oggi mi sento sovraesposta a troppe emozioni. Perché poco dopo arriva Maria, che di anni ne ha dieci e che in mano tiene un sacchetto di patatine.

«Take one! Take one! Please!». Mi supplica quasi. Le dico di no, ma lei continua a sorridere. Penso a me, a quando avevo dieci anni come lei. A quando i miei genitori non mi compravano mai le patatine perché “fanno male”. E penso anche a quanto invece io le desiderassi più di ogni altra cosa al mondo.

Se per qualche congiuntura astrale favorevole me ne fossi mai trovata un pacchetto per le mani, non credo proprio che ne avrei offerta una a una sconosciuta incontrata per caso.

Ma qui è così.

È la generosità quasi surreale di chi non ha quasi più nulla.


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