A poche settimane dalla fine del suo mandato come viceministro degli Esteri, Mario Giro, una lunga carriera nella cooperazione internazionale, commenta la situazione nel Mediterraneo: «Si sta portando all’estremo quello che era già stato deciso un anno fa. Affidare la gestione dei migranti ai libici non può che causare altre tragedie e non risolve la situazione»
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A poche settimane dalla fine del suo mandato come viceministro degli Esteri, Mario Giro, una lunga carriera nella cooperazione internazionale, commenta la situazione nel Mediterraneo: «Si sta portando all’estremo quello che era già stato deciso un anno fa. Affidare la gestione dei migranti ai libici non può che causare altre tragedie e non risolve la situazione»
Non usa mezzi termini per commentare ciò che sta accadendo nel Mediterraneo Mario Giro, viceministro degli Esteri per due governi, Renzi e Gentiloni e una lunga carriera nella cooperazione internazionale. La scorsa estate era stato tra i pochissimi a prendere pubblicamente una posizione netta contro la linea dura nei confronti delle Ong, criticando inoltre la politica di esternalizzazione della gestione dei flussi migratori alla Libia.
Il governo italiano continua a chiudere i porti alle Ong. Le conseguenze di questo ostruzionismo si leggono nei dati. Secondo Unhcr 1 persona su 7 perde la vita nel Mediterraneo. Come prevede si svilupperà la situazione?
Se continua così sempre più tragicamente. Si porta all’estremo quello che era già stato deciso circa un anno fa, cioè affidare la gestione dei profughi e dei migranti ai libici e questo non può che causare altre tragedie e soprattutto non risolve la situazione. Io mi ero già pubblicamente opposto a questo cambio di politica un anno fa, e tanto più sono contrario oggi. Certo, oggi i toni sono più crudi e brutali, alcune volte, ma non c’è un grande cambiamento. Di fondo c’è la stessa politica, portata alle estreme conseguenze. Come fui critico ieri lo sono ancora oggi.
Noi stiamo chiudendo i porti e, di fatto, stiamo portando avanti una politica che punta ai respingimenti. In termini di sanzioni internazionali quali sono le conseguenze a cui l’Italia rischia di andare incontro?
I respingimenti non si possono fare. Quando il ministro Maroni li fece in Libia, l’Italia fu condannata. Siccome però le condanne e le sanzioni arriveranno tra mesi, è chiaro che una politica che guarda solo all’oggi pensa di approfittarne. Io sostengo però che così non si risolve il problema. In Libia non c’è lo stato. Non facciamo che rimandare la soluzione del problema che invece ha bisogno di tutt’altra gestione.
La linea dura nei confronti delle Ong risale già alla scorsa estate. Lei stesso in un’intervista aveva dichiarato di comprendere la scelta di alcune organizzazioni di non firmare il codice di condotta. Avrebbe mai immaginato che si sarebbe arrivati a questo punto, in cui le Ong non trovano più un porto di approdo in Italia?
Mi sembra di capire che ormai i porti italiani siano bloccati a tutti, non solo alle Ong. Ribadisco che questa è una strada che non aiuterà a risolvere il problema, lo sposta soltanto. La campagna vergognosa contro le Ong, che fra l’altro dal punto di vista giuridico non ha portato a niente, è cominciata un anno e mezzo fa, molti adesso si dicono scandalizzati, ma in realtà un anno e mezzo fa erano ben pochi a scandalizzarsi. Quando io mi espressi pubblicamente ebbi il sostegno soltanto di Delrio (all’epoca ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti n.d.r.). Oltre alla la linea dura nei confronti delle Ong, risale all’anno scorso anche l’idea di affidare ai libici la gestione dei flussi.
Lei aveva assunto posizioni molto critiche rispetto ai respingimenti, dichiarando che le nostre imbarcazioni avrebbero dovuto accogliere anche i migranti intercettati dalla Guardia costiera libica, perché rimandarli indietro significava mandarli all’inferno. Che responsabilità ha il governo precedente rispetto alla situazione attuale?
Entrambi i governi hanno le stesse responsabilità. La campagna contro le Ong è iniziata prima, si è cercato di sviare l’opinione pubblica dicendo che era tutta colpa loro, ma sapevamo già ieri che non era vero. È dal 1991, dall’arrivo della nave Vlora, che questo fenomeno ciclicamente accade, perché non si vogliono affrontare i veri pull factor italiani, che sono, ad esempio, le agromafie, di cui nessuno parla. Che queste persone vadano poi a lavorare come schiavi non interessa a nessuno.
Non ha senso continuare a parlare di Libia come se fosse uno Stato di diritto. La Libia non esiste. Da più di un anno e mezzo si è interrotto ogni sforzo politico per accompagnare i libici a una soluzione politica della loro divisione, considerandoli poi nostri collaboratori nell’ossessione migratoria, ma diventando di fatto loro ostaggi. Finché in Libia non ci sarà una pace vera non potrà essere considerata un partner. Ci sono 150 milizie che si spartiscono il territorio e anche quando era un Paese unitario non aveva firmato la Convenzione di Ginevra. Di fatto stiamo negoziando con delle fazioni.
Criticai poi anche il fatto che il Fondo Africa era quasi tutto devoluto a operazioni di tipo securitario. Non si può affrontare la questione della gestione dell’immigrazione, né con i libici, né in modo securitario. Io ho sempre pensato che la politica di gestione dell’immigrazione debba essere bipartisan, perché non si può usare per motivi interni, come hanno fatto gli uni e gli altri, tanto più chi oggi è al governo, per avere un ritorno elettorale. È una questione nazionale e va affrontata in maniera nazionale.
Lo scorso autunno si era parlato moltissimo dell’evacuazione dei centri di detenzione libici, un processo estremamente complesso.
Questo è stato fatto dall’Unione Europea, hanno portato via 26mila persone. Un rappresentante dello IOM un mese fa ha detto che in Libia ci sono 700mila persone, per poi correggersi, qualche giorno fa, e dire che invece ci sono 200mila persone. La verità è che nessuno sa quanti sono, nessuno è andato a contarli. L’Unione Europea però ha fatto ciò che le era stato chiesto di fare al vertice tra UE e Unione Africana di Abidjan, rimpatriando migliaia di persone.
Si tratta quindi di rimpatri.
Sui rimpatri possiamo discutere. Il tema però è che rimandare o lasciare la gente in Libia, ribadisco, è come rimandarla o lasciarla all’inferno. Bisogna lavorare con i Paesi africani a sud della Libia, rafforzandoli ma facendo contemporaneamente anche un discorso severo con i Paesi di origine. Molti dirigenti di stati africani continuano a non prendere azioni concrete sul fatto che i giovani partano, rischiando di morire nel deserto o in mare. Questo non è accettabile.
Lei ha una lunga carriera all’interno della Comunità Sant’Egidio che si è occupata tanto di trovare soluzioni alternative e sicure ai viaggi della morte, come i corridoi umanitari. A che punto siamo e cosa manca perché il loro utilizzo aumenti?
I corridoi funzionano. Hanno già portato in Italia circa 1.500 persone, sia il corridoio che viene dall’Etiopia che quello, avviato prima, dal Libano, sono una bella operazione che considera già prima della partenza tutto il progetto integrativo. Il rischio di un conflitto culturale è ridotto al minimo, perché per le persone sono inserite a scuola o avviate ad un percorso lavorativo. In questo modo poi sono accolte dall’intera comunità, dalle associazioni, dai comuni e dalle famiglie del posto. È un esempio di eccellenza. Il presidente Conte ha dichiarato che i corridoi umanitari continueranno, quindi noi siamo fiduciosi che il progetto prosegua.
In realtà i corridoi umanitari non sono mai stati criticati da nessuno. Oltre a essere stati attivati anche in Francia, in Belgio, da San Marino, da Andorra, il nostro auspicio è che vengano estesi anche ad altri Paesi e, insieme al sistema delle quote, che bisogna riaprire, diventino un’alternativa concreta alla situazione caotica e anarchica di oggi.