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Come eravamo, come saremo

L’economia ha preso il sopravvento sulla comunità, tutte le persone sono diventate promotori (pochi) e servi (tanti) di un’idea di sviluppo economico mondiale, in cui la finanza è diventata la leva fondamentale per manipolare i comportamenti umani. La riflessione di Dino Barbarossa, presidente di fondazione Èbbene, nata dalla lettura dall'enciclica del Papa "Fratelli Tutti"

di Dino Barbarossa

Da molte parti e voci autorevoli, ascoltiamo dibattiti che hanno come filo conduttore la necessità di cambiare modelli economici e stili di vita. La pandemia ci sta terrorizzando, tanto per gli effetti sanitari quanto per quelli economici e ciò che ci sembrava sicuro all’improvviso sembra crollare. Ma è proprio vero che il modello sociale che ci appartiene e ci fa stare (non tutti e sempre di meno) bene, è anche giusto? Vedere come si allarghi la forbice sociale nello stesso territorio come a livello mondiale, ci lascia indifferenti?

Ricordo molto bene la mia infanzia e ricordo i racconti che mio padre e i miei nonni mi facevano dei loro tempi, degli orrori della guerra, della lotta per il pane, degli stenti per superare la giornata e per arrivare alla fine del mese. Era una vita triste e disperata? Certamente no, non ho mai sentito direttamente o capito da segni o comportamenti che avevo di fronte persone infelici. C’era un grande senso di famiglia e di comunità, che consentiva a tutti coloro che ne facevano parte di avere il necessario e addirittura permetteva di aggiungere sempre un posto a tavola, in famiglia.Erano famiglie grandi, allargate, e vivevano in contesti rurali in cui si riconosceva cosa fosse essenziale e nulla c’era di superfluo…non poteva esserci nulla di superfluo, perché ci si era formati all’essenziale. Ho ricordi vividi delle piccole conquiste, del primo vestito nuovo dopo tanti vestiti appartenenti ad altri, delle prime scarpe nuove, di un pranzo speciale, del giorno dei defunti in cui arrivava un piccolo regalo o delle tenere vacanze estive rigorosamente trascorse in campagna con i nonni, gli zii, i cugini, gli amici più cari. Ho avuto la possibilità di studiare, già mio padre si era laureato con grande fatica per via della crisi economica post bellica, e l’ho fatto con un senso di profonda gratitudine e con impegno convinto. Giocavo in strada con gli amici, non c’erano campi da affittare, palestre o piscine da frequentare, professionisti da sovvenzionare…si faceva tutto con grande semplicità, ma con una felicità interiore che compensava tutte le privazioni. Anche con gli amici di allora c’era un rapporto splendido, tale da superare il tempo e le distanze e rimanere immutato, rimanere vivo. Un mondo di cose semplici e di relazioni profonde. La fase mondiale di sviluppo industriale e tecnologico, ha davvero cambiato l’esistenza di tutti gli uomini e donne, ha cambiato radicalmente la struttura sociale e pian piano anche la coscienza umana.

L’economia ha preso il sopravvento sulla comunità, tutte le persone sono diventate promotori (pochi) e servi (tanti) di un’idea di sviluppo economico mondiale, in cui la finanza è diventata la leva fondamentale per manipolare i comportamenti umani. Ci sono state due conseguenze, a mio avviso le principali, che sono diventate “tombali” per il modello di comunità in cui sono cresciuto: la prima è la progressiva concentrazione dei capitali in mano a poche persone, con la capacità di orientare i processi politici, sociali, economici verso i loro interessi; la seconda è il progressivo depauperamento del territorio e del capitale umano in un sempre maggiore numero di territori, con un impoverimento sempre crescente delle persone ed uno sfruttamento indiscriminato della terra. Certo, tutto ciò ha fatto vedere una possibilità di maggiore benessere, la disponibilità per tanti di risorse per consumare ed acquistare – in tanti casi compulsivamente – beni di alcuna necessità, per rispondere ad un principio di emulazione e di apparenza. Sono nate innumerevoli catene di vendita di beni e servizi ed è cresciuta la capacità di comunicare quanto tali beni e servizi fossero (siano) indispensabili per vivere bene. Frattanto, intere popolazioni si sono spostate dai loro territori verso le metropoli, perché si è sviluppato il falso mito del crescente benessere connesso a queste migrazioni. L’istruzione – la necessità di studiare per “arrivare” – è diventata progressivamente il trampolino dell’affermazione personale e professionale e quasi mai una leva per rafforzare il proprio contesto familiare o territoriale.

Paradossalmente, in un mondo di persone in cerca di percorsi educativi, sono venute meno le figure educative per antonomasia: innanzitutto i genitori, che si sono spesso proposti come “amici” dei figli, sono stati assenti nel loro percorso di crescita, si sono mostrati immaturi nel dare una direzione educativa. Ma anche gli educatori nei contesti gruppali formali e informali hanno mostrato la corda, spesso in antitesi fra gli input educativi e la coerenza con la loro vita vissuta. La società è diventata un crogiolo di persone volte ad acquisire il massimo dell’affermazione personale e dell’agiatezza economica. Per qualche decennio questo trend ha trainato l’economia mondiale, ha fatto percepire chiaramente le sue perfomance e potenzialità infinite. Si sono affermate professionalità e servizi prima inesistenti, per rispondere alla sempre maggiore domanda dei cittadini, alla sempre maggiore bulimia consumistica dei cittadini. Siamo diventati sempre più “dipendenti” da professionisti di ogni genere, da strutture di ogni natura, per bisogni sempre più effimeri ma considerati essenziali per il principio di omologazione. Non si può oggi non andare in palestra perché siamo stressati, non si può non frequentare bar o ristoranti perché così fan tutti, non si può non frequentare sale da gioco di ogni genere, non si può non fare vacanze “fantasiose” e costose, non si può non avere vestiti alla moda, non si può non fare feste costosissime per ogni ricorrenza, si ha necessità di professionisti per gestire bambini, disabili e anziani, si ha necessità di supporti psicologici per ogni “fatica” della vita….tutto indispensabile per stare bene, perché evidentemente senza tutto ciò si sarebbe stati male.

Ma sotto traccia, si sono affermate sacche sempre più grandi di emarginazione, di esclusione, di povertà, di degrado. Interi Paesi e interi popoli si sono ritrovati in condizione di estrema povertà, in contesti sfruttati senza pietà e resi privi di sostentare coloro che li abitavano. Si comprendono così i fenomeni migratori sempre crescenti, tanto nei cd Paesi poveri, quanto fra Aree degli stessi Paesi occidentali “ricchi”. Il mondo ha assunto una vision globale, dimenticando la dimensione umana e la possibilità di puntare sulla capacità di autoproduzione del proprio benessere, di consentire a ciascuno con il suo passo di vivere in maniera dignitosa. Siamo decisamente divenuti isole e le relazioni sono diventate sempre più liquide e virtuali, siamo così diventati preda di coloro a cui interessa “gestire” la nostra vita, il nostro benessere, il nostro futuro. La scossa che ci ha dato la pandemia in atto, ha provocato paura e terrore, ma non ci ha spinti e non ci spinge a rinunciare al finto benessere che ci siamo costruiti, bensi a tutelarlo meglio possibile per poterlo sfruttare appena l’emergenza sarà finita.

Il problema è che l’emergenza del Covid 19 è solo l’apice di una più grande emergenza umana, ecologica, economica, politica, che prevede ulteriori puntate di crisi, una crisi etica a cui si può rispondere soltanto se si cambia decisamente i nostri comportamenti e si cambiano le scelte politiche degli Stati. Servono nuovi stili di vita, o meglio serve ritrovare gli stili di vita che hanno salvato l’umanità dalle grandi guerre e hanno rafforzato i legami sociali. Non pensiamo e non speriamo che la nostra garanzia sia il benessere economico che abbiamo raggiunto, ma occorre che l’economia sia al servizio della giustizia sociale e dell’equità redistributiva, permettendo ad ogni persona di nascere, crescere e vivere dignitosamente e costruire forme economiche differenziate, ma sufficienti a garantire tutto ciò, rispettando le culture locali e gli ecosistemi naturali. Non è più sufficiente produrre una società a più livelli che si preoccupa strumentalmente di coloro che sono “esclusi”, mentre il sistema di valori, i criteri di valutazione dell’agire economico e finanche gli stili di vita restano ancorati al criterio dell’efficienza, definita in modo tale da negare ogni spazio al principio del dono gratuito agli schemi competitivi vanno rapidamente sostituiti schemi collaborativi, in cui ciascuno coltiva il proprio bene e si prende cura del bene altrui.

Siamo “Fratelli tutti”, ma è necessario che ne comprendiamo il significato. E per me il più grande significato è dato dalla comprensione della Prossimità, della capacità di non delegare, bensì di prenderci cura della fragilità di ogni uomo, di ogni donna, di ogni bambino e di ogni anziano, con quell’atteggiamento solidale e attento, l’atteggiamento di prossimità, non chiedendoci chi siano quelli vicini a noi (uomini o donne, bianchi o neri, ricchi o poveri, cattolici o islamici,…) bensì a farci noi vicini, prossimi. La proposta è quella di farsi presenti alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della propria cerchia di appartenenza. Dunque, non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri. (Papa Francesco, Fratelli Tutti). Così si supera l’idea che ci sia una Società di sani che si prende cura dei “malati”, che discrimina in base all’efficienza, piuttosto che in base alla razza, al sesso o alla religione. Un essere umano è fatto in modo tale che non si realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza «se non attraverso un dono sincero di sé». E ugualmente non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri, scoprendo in tal modo che spesso sono questi altri la propria salvezza e la propria forza. Nella Reciprocità si esprime la Relazione e si alimenta la Vita. Così eravamo e – spero ardentemente – così saremo.


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