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La colonna infame del nuovo umanesimo

La pandemia ci ha rinchiusi in casa ma non ci ha chiuso gli occhi e se ogni volta che guardiamo le immagini di un uomo che muore, non riusciamo che a pensare alla fortuna di non essere noi i malcapitati, il mondo non potrà essere ripensato e ricostruito, ovverosia sarà impossibile ridefinire i rapporti individuo e società e rifondare eticamente l’agire umano

di Ines Raisa Fortunato e Angelo Palmieri

Si fa fatica a chiosare le ultime sordide immagini che l’impeto di una condivisione virale ci sottopone. E si fa fatica perché commentare il corpo di un uomo morto, riverso su un pavimento di un ospedale, rappresenta l’epitome di una vergogna che sembra non avere più connotati umani. Mentre il resto del mondo è impegnato a sostenere la colonna infame della propria – giustificata- paura, la morte s’offre in tutta la sua insolente nudità e smaschera la fiacca onnipotenza della storia. Resta solo una torbida capacità di saper cogliere e contenere questa ermeneutica della finitudine che non ferma gli orologi e ci rinfaccia una irreversibile crisi di umanesimo che assumiamo con una puntualissima posologia e di cui siamo tutti, nessuno escluso, responsabili. Gli occhi chiusi della morte, legati alla villania del “non tocca a me”, sono uno schiaffo di verità sulla perdita di empatia.

Siamo già tutti morti. Siamo morti su quel pavimento, nei brumeggi di quei mari che cullano i drammi ed i sogni di qualcuno lontano da noi, siamo morti ogni qualvolta l’incontro con l’altro, non ha rappresentato quella che Lévinas definisce “immediatamente la mia responsabilità”, che passa attraverso l’amore ma che è, prima di ogni altra cosa, la presa di sé sul destino altrui. Si può fare esperienza della nostra finitezza, di quella possibilità dell’impossibile, che è la morte e la si può fare attraversando i richiami di alterità che costituiscono la congiunzione con “l’io è un altro”, l’assolutamente altro, “la figura più preziosa di quello che chiamiamo bene e il fondamento più saldo di quello che chiamiamo dovere”. Il filosofo di origini ebraico-lituane ci ricorda che “il volto non è semplicemente una forma plastica, ma è subito un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al suo servizio”. È nell’epifania del volto dell’altro, la certezza da cui ripartire per generare un Noi; un potente antidoto contro il disincanto affettivo, la provvisorietà e un senso di sé frammentato, correlati del primato dell’io.

A proposito della crisi dei legami di prossimità, Luigi Zoja, parla della morte del prossimo:Dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo […]. È orfano dovunque volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la conseguenza ma anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni società, guardare i morti causa turbamento”.

Stiamo assistendo, sullo sfondo di una guerra “dal ed al coronavirus”, allo stupro della dignità, che schernisce quei valori che sembrano non caratterizzare più il nostro orizzonte temporale. Dobbiamo provare a riseminare l’empatia, ad educare la nostra capacità di accettare qualcosa di socialmente repulsivo ma anche a saper aggiogare con il dovuto, delicato silenzio, la banalità del male e ad accettarla nella sua interezza, che non è remissiva consapevolezza ma abbraccio fiducioso dell’esperienza e della condivisione. Quando il dolore, il desiderio di dignità, la compassione e l’horror vacui degli occhi dell’altro, riescono ad imprimersi nel nostro vissuto personale, allora si compie il grande salto di quell’umanesimo che bisogna ricostruire da zero: il vissuto dell’altro, è dunque diventato il mio.

L’empatia può essere una chiave di lettura diversa, rispetto ad un processo all’untore che stilizza le paure ma non le lenisce. La ricerca farneticante di un colpevole, di un capro espiatorio, ci allontana dal cammino di una rivoluzione per e con l’altro e ci risucchia nel vortice di una insana solitudine. Abbiamo marchiato gli ammalati, come fossero capi di bestiame pronti al macello, ognuno con un identificativo che racconta della tracciabilità delle nostre vite, sul letto dell’indifferenza. Abbiamo perso. Abbiamo perso la possibilità di onorare il mantra “andrà tutto bene”, perché, non si sente quel bene, quella bellezza pronta ad essere un auspicio futuro. La pandemia ci ha rinchiusi in casa ma non ci ha chiuso gli occhi e se ogni volta che guardiamo le immagini di un uomo che muore, non riusciamo che a pensare alla fortuna di non essere noi i malcapitati, il mondo non potrà essere ripensato e ricostruito, ovverosia sarà impossibile ridefinire i rapporti individuo e società e rifondare eticamente l’agire umano.

Non si tratta di scendere in campo a rischiare la vita, si tratta di iniziare ad utilizzare una semantica diversa per le nostre azioni, che si coniughi con la responsabilità e la cura dell’altro. Essere responsabili significa aver cura dell’altro in quanto, come dice Heidegger, “ognuno è quello che fa e di cui si cura”. Questa particella infettiva ci costringe a fare i conti con le contraddizioni di un’ossessione delirante del principio di autonomia. La morte è nuda come il volto e nella sua povertà non ha nulla da rivelare, solo da pretendere e come il volto, appartiene e pretende da ognuno di noi. “E’ men male l’agitarsi nel dubbio, che riposar nell’errore”, così Alessandro Manzoni nella Storia di una colonna infame, nel mistero di un lontanissimo appello etico, che si attualizza in qualcosa che sembra non essere più dipendente dal nostro arbitrio, raccontava di come, la sospensione del pensiero ammaccato dalla paura, generi, come il sonno della ragione, dei mostri. Benché siano passati diversi secoli, dalla storia di Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, il marchio dell’infamia, soggiogato da una crisi dell’umano, si riattualizza, defocalizzando il sentire comune, dall’antropologico bisogno di appartenenza ad una specie e spingendolo verso una efferata caccia alle streghe.

Così si muore. Soli. Cadendo per terra sul freddo marmo di un pavimento, affogando nel respiro silenzioso del mare, sotto i pixel di una vergogna virale. Bisognerebbe allora tentare di ripristinare un senso di prossimità, ricominciando, come direbbe Edith Stein, a rendersi conto dei dolori degli altri per opporci al crollo del noi.

Oppure, in preghiera, onorare il silenzio.

Nella foto, l'ospedale Cardarelli di Napoli. Foto Ag. Sintesi


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