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Il dio che è fallito: la lezione sempre attuale di Ignazio Silone

Pubblicato per la prima volta sulla rivista Comunità di Adriano Olivetti, "Il dio che è fallito" di Ignazio Silone racconta la disillusione dell’autore per il sogno del socialismo reale, infrantosi contro gli orrori dello stalinismo. L’espressione è entrata da quel momento in poi nel lessico di studiosi e scrittori, per indicare la disfatta di un ideale che non ha retto allo scontro con la realtà

di Francesco Paolella

Da molti anni ormai, non viene più ristampato un volume che potrebbe ritornare di nuovo di attualità nei prossimi anni: Il dio che è fallito, uscito per la prima volta nel 1950 per le Edizioni di Comunità.[1]

Si tratta di una raccolta di testimonianze che, negli anni infuocati della Guerra Fredda, scrittori ed intellettuali europei ed americani (come Silone, Gide e Koestler) che, per un periodo più o meno lungo, negli anni Venti e Trenta, avevano militato in un partito comunista, assumendo anche ruoli di responsabilità o comunque ne avevano difeso la visione ideologica e la tattica politica.

D'altra parte, non si tratta di semplice propaganda anticomunista, anche se Palmiro Togliatti, in una specie di recensione preventiva apparsa su “L'Unità”, cercò di liquidare questo libro come una «antologia di rinnegati del comunismo», fatta da transfughi bugiardi e, soprattutto, stupidi, perché incapaci di avere la coscienza della necessità del partito politico rivoluzionario. [2]

Come ha ricordato Luigi Zoja in Paranoia, ogni vero rivoluzionario deve essere necessariamente sospettoso, deve vivere in una diffidenza radicale anche verso i propri compagni. [3]

In questo senso, il comunismo novecentesco, quello burocratizzato sovietico ma non soltanto quello, è stato anzitutto un enorme, spietato, a volte violento, movimento paranoico, a ogni livello. La diffidenza e la sfiducia reciproca erano ingredienti indispensabili della militanza comunista, specie negli anni dello stalinismo. Il bisogno di fraternità, la proiezione verso un futuro radioso e radicalmente nuovo, tutto si univa, insomma, a un fondo ineliminabile di paura. Anche dalla lettura di questi scritti, la mentalità comunista appare essenzialmente corrotta dai germi di una ideologia, fatta – come ogni ideologia – di illusioni, semplificazioni, tabù, ossessioni; d'altra parte, il comunismo ha sempre goduto, specie qui in Italia, del fatto di apparire come portatore di istanze liberatrici ed emancipatrici e, da un certo momento in poi, di apparire come l'unica concreta forza di opposizione verso i regimi fascisti.

Il comunismo, nelle testimonianze di Silone e di Koestler soprattutto, appare, però, segnato soprattutto da una vera e propria visione religiosa o, meglio, mistica, dell'essere umano e dei rapporti umani, con tutto il necessario corredo di intolleranza e ipocrisia. Diventare comunista significava necessariamente convertirsi:

«La nuova luce sembra riversarsi da ogni direzione attraverso il cranio, e l'universo intero si dispone ordinatamente e coerentemente come se, per magia, i pezzi dispersi di un gioco di pazienza andassero a posto d'un colpo. Adesso ogni domanda ha la sua risposta; dubbi e conflitti appartengono al tormentoso passato – un passato già lontano, in cui la vita trascorreva in una cupa ignoranza, nel mondo insipido e sbiadito di coloro che non sanno. Nulla d'ora in può può turbare la pace interiore e la serenità del convertito» (Koestler, pagina 37).

Il bisogno di ribellarsi, davanti a ingiustizie secolari e a miserie sempre nuove, e il bisogno di superare i limiti di democrazie deboli o morenti, fatte solo di formalismi vuoti, dovevano far necessariamente “digerire” una disciplina ferrea e, a volte, asfissiante.

Ecco perchè testimonianze come queste, sulle conversioni a movimenti rivoluzionari di vario tipo, potrebbero tornare di attualità in un futuro più o meno remoto, specie se la crisi (sociale, economica, politica) attuale dovesse davvero prendere la via della catastrofe e, con la catastrofe, della rivoluzione.

Non sappiamo quanto i prossimi anni saranno simili agli anni del primo dopoguerra, di Weimar o della crisi del '29, ma possiamo pensare che – chissà sotto che forma e sotto quale bandiera– riemergerà una inedita esigenza rivoluzionaria.

Chiediamoci allora: cosa spingeva verso una militanza così rischiosa, in molti paesi addirittura illegale, una militanza che richiedeva sacrifici materiali e morali oggi (o, meglio, fino ad oggi) impossibili da concepire?

Il partito poteva offrire molto, garantire persino una specie di «schiavitù beata», ma, in cambio, era necessario abituarsi a convivere con una «mostruosa doppiezza»: una certa dose di iniquità, anzitutto verso la propria coscienza, era alla fin fine obbligatoria, e la propria individualità doveva essere comunque sacrificata.

Chi non sopportava più la coercizione, chi non riusciva più ad obbedire al partito, e non riusciva a preferirlo alla stessa verità, doveva essere espulso: non ci si poteva dimettere dal partito comunista, era sempre il partito che scacciava con infamia un adepto rivelatosi indegno, bollandolo addirittura come “anormale” o “folle”; così fu proprio anche nel caso di Ignazio Silone:

«Abbandonai la riunione, dichiarando che veramente non avevamo più nulla da dirci. Nella sentenza di espulsione che ne seguì, dopo una ricapitolazione ad usum delphini dei precedenti episodi, si poteva leggere: “…avendo egli stesso ammesso di essere un anormale politico, un caso clinico ecc. ecc.”. Era un documento ingiurioso e diffamatorio; al quale, questo va da sé, gli stessi autori non prestavano fede, altrimenti non avrebbero intrapreso quell'estremo tentativo perché rimanessi nel partito» (Silone, pagina 173).

La militanza era, in quegli anni di eroismo obbligato, ma anche di cecità obbligatoria, un continuo, ininterrotto esercizio, in mezzo a mille trappole, per raggiungere il perfetto conformismo. Come ha scritto in questo volume Louis Fischer, il bolscevismo non ha fatto altro che idolatrare l'uomo comune e, con esso, il punto di vista dei mediocri: «I bolscevichi glorificavano l'uomo comune e gli offrivano terra, pane, pace, lavoro, casa, sicurezza, istruzione, salute, arte e felicità» (Fischer, pagina 291). La miseria sempre più diffusa e tutte le intollerabili “degenerazioni piccolo-borghesi”, tutto funzionava come movente e giustificazione per un illusorio esperimento volto a garantire un violento benessere di massa, adeguando ad esso gusti e idealità. Ecco perché gli intellettuali in particolare sono sempre stati i più acuti resistenti all'interno del mondo comunista e, soprattutto, le vittime ideali di un rodato meccanismo repressivo.

«Un aspetto speciale del Partito in quell'epoca era il culto del proletariato e il disprezzo per gli intellettuali. Questa era l'ossessione, il pressante complesso di tutti gli intellettuali comunisti provenienti dalle classi medie; ci trovavamo nel movimento perché tollerati, non per un nostro diritto: notte e giorno questo concetto veniva ribattuto nella nostra coscienza. Dovevamo esser tollerati, perché Lenin aveva detto così […] Gli “ariani” nel Partito erano i proletari, e l'origine sociale dei genitori e dei nonni era un fattore importante, quando si faceva la domanda per l'iscrizione non meno che durante le biennali epurazioni di rito, tanto quanto una discendenza ariana lo era per i nazisti» (Koestler, pagine 69-70).

La Russia sovietica si organizzava per essere un vero paradiso per gli scrittori stranieri, e ciò avveniva proprio perché il regime staliniano tentava in ogni modo di corromperli. In cambio, l'intellettuale comunista doveva essere in grado di adeguare la realtà alle mutevoli esigenze della linea politica e della propaganda del partito.

Note

[1] Le stesse Edizioni di Comunità, nel 2019, hanno ripubblicato uno degli interventi del libro, quello di Ignazio Silone, uscito per la prima volta sulla rivista olivettiana “Comunità”.

[2] Cfr. Palmiro Togliatti, Contributo alla psicologia di un rinnegato. Come Ignazio Silone venne espulso dal Partito Comunista, in “L'Unità”, 6 gennaio 1950, p. 3.

[3] «Compiendo dapprima attività rivoluzionarie proibite, poi consolidando una rivoluzione riuscita, chiunque deve essere sospettoso. Ciò che distingue la semplice diffidenza da una sospettosità patologica è il lasciarsi convincere dalle prove della realtà» (Luigi Zoja, Paranoia. La follia che fa la storia, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, p. 249).


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