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Comunione dei beni: per un agire concreto

Nel nostro Paese sono moltissimi i beni immobili privati inutilizzati: tasse e costi schiacciano i loro proprietari. Perché non metterli al servizio del bene comune e di un nuovo patto di rigenerazione sociale? Una proposta

di Pietro Piro

Incontro molte persone ogni giorno. Tutte con problemi diversi. Problemi che possono essere risolti. Altri no. Molti problemi che incontro riguardano le relazioni, i vissuti intimi, familiari.

Le dipendenze, i traumi, le ferite che ancora sanguinano. Provo – con la massima onestà e umiltà – a dare delle risposte a questi problemi. Non sempre efficaci. Non sempre decisive. Ma sempre con generosità. Con la consapevolezza che anche una sola parola di vicinanza e di comprensione può essere utile. Quanti volti incontrati, quante storie al limite dell’incredibile, quante sofferenze che non posso neanche accennare e che custodisco nel segreto.

Eppure, in tutto questo flusso d’incontri, mi pare di poter “estrarre” – ed è operazione prettamente fenomenologica – due categorie di “bisognosi”, ai quali credo possa essere data una prima risposta.

I proprietari

I primi sono persone dai 40 ai 60 anni circa, che bussano alla mia porta perché possiedono dei beni che sono inutilizzati da diversi anni e che stanno diventando dei “grossi problemi”. Potremmo definire questi primi soggetti “i proprietari”. Non ricchi – non lo sono mai stati – si ritrovano spesso ad aver ereditato dei beni (case, terreni, magazzini, mezzi) che adesso non sanno in nessun modo come far fruttare. Schiacciati dalle tasse e dalle mille incombenze pratiche, non sanno più “che fare” di quello che possiedono. Vorrebbero affittare, vendere, mettere a reddito, ma non trovano nessuno disposto ad assecondare i propri desideri.

Allo stesso tempo, non vogliono vendere e alleggerirsi delle loro proprietà, perché hanno paura di “svendere” e di rimanere “senza nulla in mano”. In fondo, questi possedimenti gli danno anche una forma di sicurezza psicologica. Sognano costantemente “una ripresa dell’economia” che improvvisamente li travolga regalandogli un futuro nuovo. Purtroppo però, questo futuro non arriva mai. La domanda che mi fanno più spesso è: che fare?

I volenterosi nullatenenti

La seconda categoria che incontro è composta prevalentemente da persone di età compresa tra 20 e 40 anni. Disoccupati – o con alcune esperienze di lavoro non troppo fortunate – o giovani laureati che il “mercato” non riesce ad assorbire. Hanno idee, slancio, energie, progetti – vaghi a volte – ma tanta, tanta voglia di fare “qualcosa”. Si sentono esclusi, soli, abbandonati da tutti. Hanno una sfiducia quasi totale nelle Banche e nelle Istituzioni. Si caratterizzano prevalentemente per una pressoché totale “assenza di mezzi”. Non hanno risparmi e non hanno alle spalle famiglie che possono sostenere progettualità. Non sono neanche così “abili” da poter accedere a “progetti di finanziamento”. Sono persone che si auto-definiscono “normali”. Sperano – anche loro – in una “ripresa dell’economia” che improvvisamente li travolga regalandogli un futuro nuovo. Impieghi dignitosi, buone retribuzioni, vita “normale”. Purtroppo però questa vita non arriva mai. La domanda che mi fanno più spesso è: che fare?

Un nuovo patto di fiducia

Nella mia ingenuità, mi sono chiesto mille volte: perché non fare incontrare queste due categorie intorno ad un tavolo e provare una strada comune? Perché i proprietari non cedono gratuitamente – o a costi assolutamente fuori mercato – i loro beni inutilizzati a giovani che hanno idee belle ma non hanno i beni? Entrambi, potrebbero trarre un grandissimo giovamento da un “patto di fiducia reciproco”. Sono convinto che questo patto potrebbe valorizzare i beni – nella peggiore delle ipotesi conservarli meglio nel tempo – e creare un “mercato” alternativo della solidarietà e del dono.

Quando ho provato a fare questi ragionamenti mi sono trovato di fronte a molti muri. Il primo è l’assoluta ostilità del proprietario a cedere l’uso del bene in forma gratuita. “Io cosa ci guadagno?” Mi chiedono. Oppure: “sé devo fare godere a un altro la mia proprietà, preferisco tenermela per me anche sé non la uso mai. Anche sé va in malora. Posso sempre venderla in ogni momento e guadagnarci qualcosa. Sé ci metto dentro qualcuno poi non posso mandarlo più via. La gente distrugge tutto quello che non paga”. Obiezioni sacrosante. Preoccupazioni più che legittime.

Il più fondamentale dramma degli uomini si può chiamare “spreco”. Spesso si vive in condizioni per cui nemmeno si riesce a riconoscere cosa è spreco e cosa valorizzazione. L’uomo non solo non sa valersi delle forme di energia che ancora non conosce, ma non sa valorizzare organicamente quelle energie di cui già dispone, nemmeno di solito se stesso, e da questo soprattutto dipende la sua difficoltà a valorizzare più compiutamente il mondo

Danilo Dolci, Ai più giovani

Ma qual è il vero risultato di questo atteggiamento? Case abbandonate, magazzini stracolmi di merce inutilizzata, macchinari rovinati dalla polvere, terreni incolti (l’elenco dell’abbandono e dello spreco è infinito). Sé le obiezioni dei “proprietari” sono legittime i risultati concreti di questa tendenza al possesso sono pessimi.

Anche i “nullatenenti” fanno delle obiezioni e oppongono resistenza: “il locale deve essere mio, non spendo soldi su un bene che poi non mi appartiene, non posso stare sempre sotto ricatto del proprietario”. Anche queste sono obiezioni legittime ma il risultato è ancora più drammatico: un immobilismo sociale che sfocia nella depressione.

Educare alla condivisione

Mi pare evidente che manca una vera cultura della condivisione. Siamo ancora dentro un atteggiamento da “piccoli proprietari gelosi” che ci impedisce di accedere a un epoca nuova. La proprietà è vissuta come un “ancora psicologica” che da sicurezza e percezione di ricchezza. Eppure, di fronte all’enorme spreco di vite e risorse che attraversiamo, fondare su basi solide una vera cultura della solidarietà e della cooperazione mi pare la più grande “emergenza” nazionale.

Da questo blocco deriva l’incapacità del nostro Paese di costruire il futuro. Non si stratta del problema dell’incontro tra domanda e offerta. Non c’è nessuna domanda e nessuna offerta il più delle volte. Ci sono beni abbandonati ed energie fresche bloccate. Occorre far incontrare – forse anche scontrare prima – queste figure così lontane per “fortuna” e così vicine per “necessità”.

Comunione dei beni

L’idea che mi sono fatto nel tempo è che occorre praticare capillarmente forme di “comunione dei beni”. Non mettere tutto in comune – che mi pare più una vocazione minoritaria – ma mettere tutti qualcosa in comune. Poco da tutti. Ma proprio tutti. Oggetti, spazi, tempo, energie, idee, competenze. Ma partire innanzitutto dai beni materiali che si possiedono. Cedere parti dei propri averi a chi non possiede nulla ma ha voglia e desiderio di fare. Mi si obietterà: che cosa c’è di nuovo in questa proposta? Io direi proprio nulla. Eppure, mi pare una proposta concreta che deve essere rinnovata con una “forza profetica” mai avuta fino ad oggi.

Perché mi sembra assurdo avere migliaia di appartamenti vuoti e persone senza fissa dimora che muoiono nel freddo delle nostre strade distratte. Magazzini di merce impolverata lasciati marcire e ragazzi che vorrebbero aprire un piccolo negozio che si disperano. Macchinari accantonati in capannoni chiusi con catene arrugginite e donne desiderose di emanciparsi che non hanno nemmeno una macchina per cucire. Terreni incolti e giovani che vorrebbero diventare contadini ma non riescono a comprare un terreno.

Ci sono sprechi che non possiamo più permetterci. Vuoti che dobbiamo riempire. Case abbandonate che dobbiamo fare diventare rifugi ospitali. Canoniche deserte che chiamano alla vita.

Un primo censimento

Il primo passo è fare a livello locale un censimento dei beni disponibili. Organizzare dei gruppi di lavoro composti da “proprietari” e “volenterosi nullatenenti” che inizino un dialogo fruttuoso e responsabile. Bello sarebbe coinvolgere Enti e Associazioni che già da tempo praticano questa forma di virtù civile (penso ad esempio alla Banca del Tempo). Questo percorso ha bisogno di tanti uomini e donne di buona volontà che mettano in comune le loro competenze.

Questo “movimento” non può che nascere “dal basso” dalle intenzioni condivise di un incontro. Sé diventasse anche “politica” non sarebbe male. Ma non ho illusioni in merito. La “proprietà privata e il profitto” sono “mitologie forti” che hanno ancora tanto seguito. Non credo ci siano figure politiche attuali che siano in grado di proporre una “comunione dei beni” strutturale e diffusa. Ma spero di sbagliarmi.

Non credo di aver detto nulla di nuovo e mi scuso per questa “banale proposta”. Eppure, mi pare che sia l’unica strada percorribile in questi tempi difficili. Tempi che chiamano a una solidarietà senza confini che parta dalla rinuncia a “pezzi di proprietà” per avere in cambio “pezzi di gioia”.


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