Sanità & Ricerca

Il valore della sanità di territorio. L’esempio di Avsi

Sul numero del magazine in distribuzione abbiamo messo nel mirino 18 progetti territoriali pensati e sviluppati in un’ottica di prossimità. Interventi che nella loro totalità durante la pandemia hanno costituito una sponda essenziale per salvaguardare il diritto alla cura di tante persone e per non mandare in tilt il Servizio Sanitario Nazionale. Uno di questi è Building Hope che Fondazione AVSI ha implementato a Milano

di Lorenzo Maria Alvaro

Gli strascichi post Covid-19 sono una delle grandi sfide che i medici si trovano ad affrontare in questa emergenza sanitaria. «Una patologia che si chiama “sindrome acuta post-Covid” di cui si parla poco e che non riguarda esclusivamente chi è stato colpito duramente e che ha subito intubazione e pronazione in terapia intensiva. Abbiamo anche persone che, a mesi di distanza dalla guarigione, faticano a camminare, respirare o a concentrarsi», spiega Arnaldo Andreoli, direttore responsabile della riabilitazione specialistica dell’ospedale Sacco di Milano. «La criticità principale con questi pazienti, visti i problemi legati al contagio e quindi agli spazi contingentati cui i protocolli sottopongono gli ospedali, è che risulta molto difficile riuscire a seguire di persona il percorso riabilitativo». È proprio per questo che è nato il progetto Building Hope, costruito da Avsi in partnership con l’ospedale e finanziato dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (Usaid).

«L’obiettivo è seguire da casa questi pazienti, con un occhio di riguardo anche alle eventuali condizioni di disagio, attraverso un servizio di telemedicina e teleriabilitazione», sottolinea Andreoli. Il progetto, che è operativo da giugno 2020, si rivolge ad una platea di 12mila beneficiari diretti. «Un sistema come questo ci permette da un lato di dedicare molto più tempo e attenzione al singolo paziente, e nel contempo, di prendere in carico tantissimi pazienti in più rispetto alla ricettività standard», sottolinea Andreoli.

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In cosa consiste il servizio? «Dotiamo di un kit, una valigetta, ogni paziente: in questo modo lo monitoriamo da remoto, avendo a disposizione tutti i parametri scientifici che ci servono, e possiamo sottoporlo a sedute riabilitative online con appuntamenti settimanali». E i risultati? « È ancora presto per fare una valutazione, anche perché non conosciamo ancora approfonditamente il decorso della malattia. Ma vediamo dei grandi miglioramenti. Sto seguendo tra gli altri un giovane personal trainer di 27 anni. Quando abbiamo cominciato aveva un’autonomia motoria di circa 100 metri. Oltre quella distanza non riusciva a camminare perché era spossato. Un problema per lui enorme visto che con il corpo lavora. Oggi ha quasi recuperato totalmente e riteniamo che nelle prossime settimane potrà tornare in palestra», spiega il medico.

Ma le criticità legate al post Covid sono molte e molto diverse. «Stiamo seguendo tantissime casistiche. Professionisti che non riescono più a lavorare perché non ricordano quello che hanno fatto nel giro di pochi minuti, o persone che da un punto di vista clinico sono perfettamente sane ma continuano a lamentare fatica nella respirazione. In ogni caso il tutto è sempre accompagnato da una fortissima astenia. Una sfida molto ardua che ha anche molto a che fare con la fiducia del paziente nel proprio medico, vista la situazione di estrema fragilità anche psicologica che vivono. Forse l’aspetto più importante di Building Hope è proprio quello di permettere a noi sanitari di creare un legame e un rapporto con i pazienti che, nonostante si lavori da remoto, fa la differenza nel corso di cura». Il percorso infatti prevede, oltre al monitoraggio costante che gli strumenti permettono, appuntamenti fissi durante la settimana in cui il medico si dedica in call completamente al paziente.

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Tutte le foto sono di Alessandro Grassani


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